cultura
Il ricordo di Oriana Fallaci. A dieci anni dalla scomparsa, le sue parole resistono. Intervista al nipote Perazzi
Se ne andava dieci anni fa, tra l’ipocrisia di chi l’aveva descritta come una folle, e le lacrime di coloro i quali l’avevano portata in trionfo, senza conoscerla realmente.
Oriana Fallaci morì il 15 settembre 2006, consumata da un terribile tumore. Forse complice la sua passione per la scrittura, che la costrinse a posticipare le cure e terminare la stesura di Insciallah. Ordinò un funerale riservato, proprio com’era lei, e sulla tomba fece incidere “Scrittore”, perché fare giornalismo equivaleva a comporre un romanzo. Decise di andarsene nella sua Toscana, recuperata da un jet privato che attraversò l’Atlantico per mostrarle i colli del Chianti un’ultima volta.
Si potrebbero scrivere molte righe su Oriana Fallaci, raccontandone le grida e i lunghi silenzi. Tuttavia, non si riuscirebbe a trasmettere niente di più rispetto a ciò che convegni e fiction televisive hanno già cercato di fare.
Il modo migliore per conoscerla resta quello di prendere in mano un suo libro e riflettere su quelle parole di libertà che puntualmente proponeva. Scoprirla virgola dopo virgola, come lei avrebbe voluto.
«Era poco italiana ora che essere buoni italiani vuol dire es- sere conformisti, recitare la correttezza politica, vivere le passioni dei premi letterari e dei talk show politici, ed essere per forza di destra o di sinistra – puntualizzava Toni Capuozzo, nel suo estremo saluto all’Oriana -. Non fatevi ingannare quando cercano di separare le sue parole dell’11 settembre da quello che era stata prima. Era la stessa di sempre, quella che aveva giudicato la guerra del Vietnam inutile e stupida, quella del bambino mai nato, quella che si era tolta il velo davanti a Khomeini».
«Era una profonda conoscitrice del mondo islamico» La giornalista raccontata dal nipote Edoardo Perazzi
«La sua incredibile scrittura resisterà per sempre. Una prosa incalzante, simpatica e arguta, che non lascia mai indifferente il lettore». Edoardo Perazzi, nipote ed erede universale di Oriana Fallaci, è orgoglioso di colei che gli ha affidato l’arduo compito di difenderne la memoria e le opere.
Fin da piccolo le ha vissuto accanto, come un figlio: «Mi dimostrava molto affetto e, se necessario, mi sgridava e correggeva. Ricordo con piacere, nell’innocenza bambinesca, le sue partenze per il Vietnam, che significavano tantissimi regali al ritorno».
La Fallaci conobbe la guerra fin da giovane, crescendo sotto i bombardamenti del secondo conflitto mondiale. Come venne influenzata da questi avvenimenti?
«A partire dall’armistizio dell’8 settembre 1943, Oriana si trovò coinvolta in prima persona nella liberazione di Firenze. La città era occupata dalle “squadracce” naziste e fasciste, e lei cercò di rendersi utile come poteva. A tredici anni distribuiva il giornale clandestino, trasportava nel cestino della bici armi, bombe e bigliettini, altre volte aiutava i prigionieri alleati a fuggire. Suo papà venne imprigionato, torturato e rinchiuso a Villa Triste da una banda di squadristi. Oriana ottenne il permesso di incontrarlo nel parlatorio, ma neanche lo riconobbe da quanto era sfigurato. All’uscita, chiese alla madre per quale motivo fosse stato ridotto in quel modo. Lei rispose: “Perché tuo padre fa politica”».
Diventata più grande si lanciò nel mondo del giornalismo. Come preparava le interviste?
«Oriana lavorava ad ogni ora, immancabilmente con la sigaretta in bocca. Passava tutto il giorno sulla macchina da scrivere. Spesso ricominciava da capo, magari per correggere una sola virgola, in modo maniacale. Iniziò a commentare le interviste in prima persona, a contestualizzarle con lunghe prefazioni che costringevano il lettore a prendere una posizione, ad amare o odiare l’intervistato. Dal momento in cui il giornale richiedeva il pezzo, passavano diverse settimane. Non solo perché i personaggi a cui lei si rivolgeva erano difficili da contattare, ma anche perché si documentava su qualsiasi dettaglio potesse risultare utile: il contesto geopolitico, le caratteristiche psicologiche, i punti deboli, gli amici e i nemici. Il tutto senza internet o assistenti, bensì attraverso telefonate, articoli e libri. Molte di queste, avendo perso troppo tempo, non riuscì a realizzarle. Ricordo quella con Andropov, che fallì perché Oriana continuò a posticipare l’incontro, e lui nel frattempo morì. Così facendo, tracciando un profilo completo dell’intervistato, diventava una macchina da guerra inarrestabile, che non lasciava alcuna via d’uscita all’interlocutore».
Un esempio?
«Rimane celebre il pezzo su Henry Kissinger, ancora oggi studiato nelle scuole di giornalismo. Riportò una dichiarazione del Segretario di Stato del governo Nixon in cui ammetteva di sentirsi come “un cowboy solitario alla guida dell’America e del mondo”. Kissinger smentì poco dopo, ma a distanza di anni ho risentito la registrazione: lei gli preparò la trappola, pronunciò la frase al suo posto e lui, ingenuamente, la confermò con un perentorio “Sì”. Allo stesso modo, provò ad affondare l’israeliano Ariel Sharon, continuando a domandargli se fossero intenzionati ad utilizzare la bomba atomica, ma lui non abboccò. I grandi della Terra, nonostante fossero consapevoli del pericolo, accettavano di incontrarla, quasi fosse una consacrazione».
Diversi colleghi l’hanno accusata di inventarsi le interviste. Oriana come reagiva a queste critiche?«Molto male, non le sopportava. Non a caso, odiava chiunque facesse il giornalista. Rivedendo i suoi appunti, capisco la frustrazione che provava a causa di quelle accuse. Infatti, oltre a trascrivere minuziosamente le risposte e le impressioni che percepiva, registrava tutto, a scanso di equivoci. È vero, può darsi che cambiasse l’ordine delle frasi: si sentiva uno scrittore prestato al giornalismo e, come tale, abbelliva i concetti».
Perazzi, Lei ha raccontato d’aver ritrovato un quaderno con la prima stesura di “Lettera A Un Bambino Mai Nato” risalente al 1967. Oriana perse un bambino nel 1966. È un libro autobiografico?
«Tutta la sua produzione letteraria nasce da esperienze personali, ogni personaggio la rappresenta. Tuttavia, essendo scritto con una tale potenza, la cosa passa in secondo ordine. Soprattutto, se teniamo conto del periodo in cui venne pubblicato: le lotte femministe si diffondevano e la discussione sull’aborto s’infiammava. Un testo difficile, frainteso perfino da Pasolini. Ho trovato una lettera in cui lo rimproverava: “Anche tu mi hai deluso, non hai capito il mio libro”».
Chi è stato il suo più grande amore?
«In famiglia, lei parlava solo di Alekos Panagulis, a cui dedicò Un Uomo. In realtà, la sua passione più vera fu quella con François Pelou, reporter di guerra che conobbe in Vietnam. Era un belva, perciò ogni relazione si complicava. Anche con Alekos, se non fosse rimasto ucciso nell’incidente stradale, sarebbe finita a breve»
Com’erano vissuti i suoi viaggi per gli scenari di guerra?
«Con preoccupazione. Quando tornava, a noi bambini raccontava episodi di gente fatta a pezzi, trucidata e uccisa: ho avuto gli incubi per molto tempo. Sua mamma Tosca diceva: “Quando è via, non vedo l’ora che torni. Quando torna, non vedo l’ora che parta”».
Cosa risponde a chi confina la Fallaci del “dopo 11 settembre” in un momento di follia e incoerenza?
«Pochi mesi fa è uscito un libro molto importante dal titolo Le Radici Dell’Odio – La Mia Verità Sull’Islam. Si tratta di una raccolta di reportage e riflessioni sulla cultura islamica a partire dal 1960. Ciò dimostra che Oriana non fosse una pazza nevrotica che, alzandosi una mattina per caso, iniziò ad inveire nel vuoto. Ma una profonda conoscitrice di quel mondo e dei suoi meccanismi. Tramite La Rabbia e L’Orgoglio esortò l’Occidente a reagire. Per lei, se di fronte ad una guerra non si combatte, si è destinati a soccombere. Ed è quello che sta accadendo».
Nel 2005, Vittorio Feltri lanciò una campagna per chiederne la nomina a senatore a vita. Avrebbe accettato?
«Sì, pur essendo già molto malata. Amava confrontarsi, non aveva paura di nulla. Il posto in Parlamento sarebbe stata l’ennesima occasione per esprimere la propria opinione».
Che rapporto aveva con il successo?
«Può sembrare pazzesco, ma era davvero riservata. Utilizzava il successo per smuovere le coscienze ed impegnarsi civilmente. Mai per sé stessa, tant’è che presenziò a pochissime delle consegne di premi letterari a cui fu invitata».
Quali indicazioni le diede per i suoi ultimi giorni?
«Non nominò mai le parole “morte” o “funerale” per scaramanzia. Però, era stata sempre chiara su un aspetto: niente celebrazioni di Stato o, ancor meno, religiose».
Eppure negli ultimi anni sviluppò una forte amicizia con Monsignor Fisichella. Trovò la fede?
«No, era assolutamente atea. Del cattolicesimo apprezzava il messaggio di pace e la bellezza artistica, nulla di più. Una volta disse: “La mia religione è la mia vita”».
Molti dicono che la Fallaci andrebbe letta a scuola. Cosa ne pensa?
«Adorava gli studenti, non rifiutava mai un convegno nei licei o nelle università. Coi giovani era molto indulgente, cercava di aiutarli e capirli. I suoi libri furono inseriti nel programma ministeriale più volte, e lei ne era orgogliosa. Pochi sanno che, nel 1970, scrisse Quel Giorno Sulla Luna, destinato alle scuole medie».
Perazzi, quotidianamente, affronta opinionisti, tifosi dei salotti televisivi e giornalisti che non rinunciano a tacere: «Prima di criticarla o strumentalizzarla, leggete i suoi libri e riflettete sulle sue parole. Fatevi la vostra idea, non quella dell’intellighenzia di turno che, con infondata superiorità, crede di poter giudicare senza conoscere»
Thomas Trenchi
(Pubblicato l’11 settembre 2016 sul quotidiano Libertà)