cultura
«I giornalisti non devono autocensurarsi». Intervista a Milena Gabanelli
Milena Gabanelli nasce nel 1954 a Tassara, una frazione di Nibbiano, in provincia di Piacenza, ma i ricordi della città sono vaghi: «Ho memoria della stazione, essendovi transitata più volte in treno, e di piazza Cavalli, che ho visto da piccolissima. Sono immagini lontane, la mia famiglia oggi vive in Lombardia». Poco dopo si trasferisce in Brianza, dove trascorre l’adolescenza, quindi a Bologna, per frequentare il corso di laurea.
La Gabanelli non ha la presunzione di definirsi un’innovatrice («non ho mai pensato al “cosa mi ritengo”, all’epoca semplicemente era più conveniente lavorare in quella maniera»), eppure l’impronta che ha lasciato nel mondo del giornalismo è indelebile. Durante gli anni novanta, infatti, abbandona lo schema tipico della troupe televisiva, comincia a confezionare i servizi da sola, in prima persona, con una semplice telecamera non professionale, introducendo il concetto di videogiornalismo: «Oggi la tecnologia è progredita, le macchine sono piccole e sofisticate. Allora non era così, bisognava riempire il pezzo di contenuto, affinché si giustificasse una forma meno qualitativa».
La sua carriera prosegue come inviata di guerra. In quei contesti tragici, come cambia il modo di vedere la realtà?
«Ho viaggiato in Somalia, Mozambico, Cambogia, Cecenia, Jugoslavia. Dal punto di vista professionale, lo scenario di guerra è uno dei più semplici da narrare e costruire: occorre “solo” trovare il coraggio di raggiungere il fronte e schiacciare REC. Invece, realizzare inchieste di tipo finanziario è molto più complicato, dovendo fare continue verifiche e sintesi di linguaggio».
Non concorda, dunque, con chi sostiene che il fronte sia un punto d’arrivo gratificante e soddisfacente per un giornalista?
«Trovo che sia una considerazione estremamente banale. Come detto, è un prodotto meno complicato. Questo non toglie che, se non ci fossero i giornalisti a testimoniare cosa succede, anche mettendo in gioco la propria vita, non si saprebbe nulla dei conflitti».
Tornerebbe a raccontare gli scontri armati, direttamente dai luoghi sensibili?
«No, adesso mi sto occupando di altro. Però, in futuro, non lo escludo».
Report, la trasmissione che conduce, racconta al pubblico le porcherie commesse dalla politica e dalla classe dirigente. Nonostante ciò, crede ancora nelle istituzioni?
«Se non credessi nelle istituzioni, mi occuperei esclusivamente dell’orto. Bisogna continuare, ognuno nel proprio piccolo, ad essere cani da guardia, a imporre che il tiro venga corretto. È meglio indirizzare questa domanda a un qualunque cittadino: cosa fa per proteggere le istituzioni?».
Secondo una recente rilevazione, nel nostro paese la libertà di stampa sarebbe al 77° posto al mondo. È un dato che rispecchia la verità?
«Nella mia esperienza trentennale, in cui ho trattato argomenti delicati e trasversali, mirando sempre ai nervi scoperti, non mi è mai successo che qualcuno mi censurasse. In Rai, non ho mai avuto problemi di questo tipo. Ho affrontato casomai discussioni per tutelare la postazione, ma questo è normale quando ci si difende dagli attacchi. È anzitutto il giornalista che non deve autocensurarsi, pensando che “tanto quello che scrivo non verrà pubblicato”. È un modo per assolversi e non faticare».
La storia di Milena Gabanelli è frutto di lavoro, passione e fatica, che nel tempo hanno contribuito ad addossarle un’immagine forte, quasi una corazza. D’altronde, quando si affrontano i colossi e se ne raccontano gli scandali, la determinazione è fondamentale. La trasparenza è il carattere distintivo del suo giornalismo, mai piegato al potente di turno: è arrivata a denunciare perfino gli errori commessi dal suo stesso editore, Rcs. Milena Gabanelli, oggi, è un marchio inconfondibile e, come spesso accade a chi tiene la schiena dritta, fastidioso.
Thomas Trenchi