cultura
"Donne nella Grande Guerra", la conferenza a Palazzo Gotico
Nel Salone di Palazzo Gotico, di fronte a numerose classi degli istituti piacentini, viene proiettata una foto emblematica: una donna in divisa militare che soccorre un’operaia intossicata.
È il 4 novembre, la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, in cui si commemora la vittoria italiana nella prima guerra mondiale: in Piazza Cavalli, la banda suona l’inno di Mameli e le alte uniformi sfilano, mentre qualche metro più in là si svolge il convegno “Donne nella grande guerra”, con l’obiettivo di restituire le celebrazioni anche alla parte femminile protagonista del conflitto.
Francesco Frizzera (professore dell’Università degli Studi di Trento), la storica Claudia Bassi Angelini, Anna Riva (responsabile didattica dell’Archivio di Stato di Piacenza), Bruna Bianchi (docente dell’Università Cà Foscari di Venezia), e Matteo Ermacora (docente dell’Università Cà Foscari di Venezia), hanno preso parte alla conferenza, coordinati dalla direttrice della sezione locale dell’Isrec Carla Antonini.
Gli spunti degli esperti
Le mogli, tra il 1914 e il 1918, impararono ad arare i campi, a riempire i proiettili con gli esplosivi, a maneggiare i materiali pericolosi, senza ovviamente alcuna precauzione (infatti la sicurezza sul posto di lavoro era ritenuta un dettaglio, visto che al fronte gli uomini venivano massacrati): accedettero così alle occupazioni dalle quali prima erano escluse. Ciò significava in parte un percorso di emancipazione, seppur doloroso e logorante, rappresentato dalle artiste come Flora Lion e Anna Airy, che con i loro quadri trasmettevano l’inferno di fuoco delle fabbriche. Le violenze domestiche erano all’ordine del giorno, così come i conseguenti ricoveri per angoscia, ignorati dagli psichiatri che dovevano piuttosto prestare attenzione ai reduci e ai soldati uomini.
Nemmeno l’occupazione austro-tedesca del Veneto (1917-1918) risparmiò il gentil sesso: dopo la disfatta di Caporetto, vi fu un forte arretramento del fronte, che comportò lo spostamento di circa 4 milioni di soldati sul territorio veneto-friulano. Solo 250 mila civili riuscirono a fuggire e a varcare il Piave, gli altri tornarono nelle proprie case e subirono l’occupazione, che si manifestò con terribili atti di crudeltà: 25.000 italiani morirono per denutrizione, mancanza di cure sanitarie, o vittime dell’esodo. 735 donne furono stuprate e 53 uccise. Le violenze sessuali causavano numerosi danni psichici, talvolta irreversibili, purtroppo spesso circondate dal silenzio, senza esser denunciate per paura di infangare il nome della propria famiglia. A partire dal marzo 1918 i tedeschi reclutarono 12.000 donne per le industrie belliche della Germania, costringendole a vivere un’esperienza disastrosa sulla catena di montaggio. Le donne però erano anche ribelli: alcune tentavano di uscire dal blocco militare per sopravvivere, altre sfidavano i divieti di circolazione e provavano a raggiungere la pianura per approvvigionarsi.
Maria Grazia Suriano, docente dell’Università di Venezia ca’ Foscari, ha aperto una parentesi su “Gli animali nella Grande Guerra”: «Senza la presenza degli animali al fronte, che furono 16 milioni, la guerra non sarebbe stata possibile. I cavalli erano quelli più impiegati: è probabile che, se gli imperi centrali ne avessero avuto un maggior numero, gli esiti sarebbero stati diversi. Non a caso, i paesi dell’intesa riuscivano invece ad avere un rifornimento costante di cavalli, grazie alle praterie americane e australiane da cui li estraevano allo stato brado. I gatti erano posizionati nelle trincee per cacciare i topi o per rilevare – spediti in missione a morte certa – la presenza di gas letali. Vi erano inoltre reparti di cani maremmani utilizzati per trainare i carretti con l’artiglieria, le derrate alimentari e l’acqua. I piccioni viaggiatori erano impiegati per comunicare o – applicandogli una fotocamera al collo – per lo spionaggio in volo sopra le zone sensibili».
Thomas Trenchi