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Lotta alla mafia, Don Cozzi interviene a Piacenza: «La Chiesa deve fare di più»
«I pentiti di mafia non meritano alcuna giustificazione. Con loro il mio approccio non è mai stato quello della “pacca sulla spalla”, anzi, nonostante sia un prete, ho utilizzato un metodo parecchio laico, di ascolto e confronto». Don Marcello Cozzi, che ieri ha presentato il suo ultimo libro “Ho Incontrato Caino”, presso la biblioteca Passerini Landi di Piacenza, ha voluto chiarire fin da subito, senza giri di parole, che «il tono con cui racconto le loro esperienze non è pietoso o smielato, bensì un incontro tra uomini, uno tsunami che trasporta il tormento dell’altro, travolgendolo e aprendo molti interrogativi».
«Non ho confessato né intervistato questi mafiosi – spiega Don Cozzi, responsabile del servizio di accompagnamento ai testimoni di giustizia di “Libera” -. Dialogo con loro da oltre vent’anni. Ho scritto questa opera, perché oggi abbiamo bisogno di parlare delle mafia riferendoci alle persone, altrimenti corriamo il rischio di trattare l’argomento in modo astratto, sociologico. Ed è sbagliato».
Quando si parla di lotta alla mafia, non si può prescindere dal ruolo sociale ricoperto dalle istituzioni religiose. Lo sa bene Don Cozzi, che non ha paura di compromettere la tonaca: «Ci sono nuclei ecclesiastici che si impegnano profondamente, sparsi ovunque, ma non basta, bisogna fare di più. Dato che la mafia non ammette interferenze, la Chiesa è chiamata ad interferire. Per esempio, deve essere maggiormente presente in certi territori, strappare letteralmente i giovani dalla tentazione mafiosa, seguendo i passi di Don Beppe Diana e Don Pino Puglisi. Occorre che, in un piccolo paese, la gente capisca in modo netto da che parte sta il prete, il quale deve scegliere le sue frequentazioni con franchezza. E questo spesso non succede: in Calabria, in queste ore, sono indagati circa dieci parroci per concorso esterno in associazione mafiosa».
Un rapporto evidentemente disomogeneo, che da una parte ha visto e vede impegnati in prima persona i “preti antimafia”, dall’altra gli uomini addobbati con la croce di Cristo a braccetto con i criminali. È stato chiaro, cercando di tracciare una separazione definitiva, Papa Giovanni Paolo II nel 1993, ad Agrigento: «Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione… mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte! […] Lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio!». Ancor più risoluto Papa Francesco, che, nel 2014 a Sibari, ha proceduto alla scomunica: «Quando all’adorazione del Signore si sostituisce l’adorazione del denaro, si apre la strada al peccato, all’interesse personale e alla sopraffazione; quando non si adora Dio, il Signore, si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza. La vostra terra, tanto bella, conosce i segni e le conseguenze di questo peccato. La ’ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no! […] Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!».
Se dall’alto il messaggio è arrivato in modo schietto, quelli “più a basso” sono ulteriormente chiamati a metterlo in pratica, fuor di giustificazioni, come ha specificato Don Cozzi durante l’evento piacentino: «Smettiamola di presentare la lotta alla mafia in stile “Armageddon”, estrema e lontana dalla vita ordinaria di chiunque. Non è una sfida tra i paladini del male e quelli del bene, ma un meccanismo in cui sono coinvolti tutti gli esseri umani. Ho visto la banalità del male, di chi ha agito per obbedienza, piuttosto che per soldi. Ho in mente Gaspare Spatuzza, che mi ha raccontato, con le lacrime agli occhi, gli attimi mentre Giovanni Brusca girava nell’acido il piccolo Giuseppe, dopo averlo strangolato, e con l’altra mano mangiava un panino con la mortadella. L’impegno antimafia non può essere solo militare e giudiziario, ma anzitutto culturale, per togliere le vite e le menti ai circuiti del malaffare».
Thomas Trenchi