cultura
"Zero Dark Thirty": la lotta al terrorismo al di là dei supereroi
Torna la paura (se n’è mai andata?) in Europa: la strage di Berlino, l’assassinio dell’ambasciatore russo Andrey Karlov, i nuovi video divulgati dall’ISIS sottotitolati in italiano. E la necessità, forse per non rimanere intrappolati nel panico, di riportare nel mondo umano le ricostruzioni romanzate del “guardie e ladri” tra servizi segreti e terroristi. Perché no, attraverso il cinema: ecco la recensione di “Zero Dark Thirty”.
“Zero Dark Thirty”, basato sulle operazioni che portarono alla cattura del terrorista Osama Bin Laden nel 2011, concentra la trama nel confine sottile tra il rischio di non intervenire e quello di commettere un errore. È una pellicola del 2012 diretta da Kathryn Bigelow, che, raccontando il lato umano della lotta al terrorismo, stravolge il carattere eroico-mitologico spesso utilizzato. In altre parole, ricorda che i terroristi non sono diaboliche e invincibili menti sovrannaturali, così come gli agenti dei servizi segreti non sono supereroi con poteri speciali: si tratta, in entrambi i casi, di persone con le loro debolezze e, soprattutto, incertezze.
La giovane incaricata della CIA Maya Lambert è inviata in Pakistan, per ricercare il capo di Al-Qaida Osama bin Laden. Al suo fianco, vi è l’esperto agente Dan, abile nel carpire le informazioni dei prigionieri attraverso la tortura. Proprio qui, però, vi è la prima velata disapprovazione della Bigelow alle pratiche coercitive: il nome decisivo di Abu Ahmad al-Kuwayti, un uomo fidato di Bin Laden, viene rivelato grazie all’astuzia di Maya, senza ricorrere alle violenze fisiche. Non è infatti una sfida a suon di proiettili, pugni e attacchi corpo a corpo, bensì una contrapposizione di sforzi mentali: chiunque è suscettibile ai cedimenti interiori, partendo da Maya, i cui occhi (che passano continuamente dalla delusione alla speranza) sono inquadrati in primo piano, per indagare la sfera emotiva nascosta all’interno di chi porta l’etichetta di “buono” o “cattivo”. Non esiste il “duro di turno”. Lo stesso Dan, che inizialmente pare un soldato inespugnabile, cede, abbandona la missione sul campo e ritorna negli Stati Uniti. Prevale la tensione psicologica, piuttosto che quella d’azione bellica.
Il film si conclude con la buona riuscita della missione e, invece di un sonoro brindisi e qualche abbraccio, con il pianto liberatorio (e brutalmente umano) di Maya. Che non possiede, evidentemente, alcun superpotere.
Thomas Trenchi