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Lo zafferano colora la Val Trebbia. E da Bobbio mira al mercato cinese
Da Bobbio alla Cina, con una valigia carica di zafferano. La linea che potrebbe congiungere la Val Trebbia all’altra parte del mondo è tracciata dagli stimmi d’oro rosso coltivati da Alberto Destri, che poco tempo fa ha iniziato la sperimentazione con metodo biologico della spezia, scoprendo le caratteristiche particolarmente favorevoli del suo terreno in collina.
Il sogno, però, non si ferma qui: mira a commerciare la pianta nei mercati orientali, dove vivono le nuove fasce di ricchezza, e invertire così l’attuale rotta. L’esportazione di zafferano dal belpaese, infatti, è davvero ridotta, anzi sta attraversando un profondo periodo di crisi. A trarne vantaggio sono gli iraniani, i principali venditori: la produzione mondiale è di circa 178 tonnellate per anno, di cui il 90% preparato in Iran (secondo l’Osservatorio economico di Zafferano Italiano). L’export ha un valore di 23 milioni di euro, a fronte dei soli 551 mila euro a cui ammonta l’importazione (dati Istat).
Lo zafferano della Val Trebbia, diversamente da quello del supermercato, si presenta in pistilli sottili, da conservare a temperatura ambiente in barattoli di vetro ermetici. Il profumo, in primis, non mente: quello floreale, dolce e gradevole della pianta biologica di Alberto Destri, che non subisce alcun tipo di trattamento, frutto di lenti e precisi processi di essiccazione, non ha nulla a che vedere con l’odore forte, acido e intenso delle bustine sugli scaffali. La polvere, in generale, viene confusa – volontariamente o meno – con la curcuma: bisogna prestare attenzione perché, pur avendo una consistenza simile, è meno pregiata.
Nelle valli piacentine non è certamente comune trovare le tinte violacee delle coltivazioni di zafferano: «Mi sono reso conto di avere un ettaro di terra – racconta Destri – con le condizioni perfette per altitudine, esposizione a sud e pendenza». Evitare il ristagno idrico è molto importante, poiché rischierebbe di far marcire i bulbi: «Si tratta di un’erba che beve pochissimo. Le aiuole devono essere distanti almeno quaranta centimetri. Anche i cinghiali e i caprioli sono una minaccia: dopo trent’anni di inattività del campo, abbiamo dovuto estirpare le vecchie radici e recintare gli iniziali cento metri quadri per tenere lontani gli animali selvatici. I bulbi che ho piantato provengono dall’Umbria. Nel primo ciclo hanno prodotto trenta grammi, e nel secondo centocinquanta, cioè 1200 risotti».
La modalità è rimasta pressoché immutata nei secoli, necessitando di una notevole manodopera a causa del suo basso indice di meccanizzazione. «Si lavora di braccia – spiega Destri -, senza nessun macchinario. La fase di raccolta avviene in ottobre e novembre, rigorosamente con il fiore chiuso, quindi prima che sorga il sole, dopodiché si procede con la sfioritura e l’essiccazione».
Un appello finale, che nei prossimi mesi Destri cercherà di mettere in pratica: «Nel nostro Paese, il fabbisogno di zafferano è alto, tuttavia viene soddisfatto per lo più dalle aziende straniere. Rappresenta un’opportunità rilevante, non solo per la ristorazione: sono in corso diverse ricerche che ne evidenziano le proprietà curative. Ritroviamo la forza del made in Italy».
Thomas Trenchi