curiosità
Dirce, la ragazza madre rinchiusa in soffitta. L'appello: realizzate un film sulla sua vita
Una mamma single negli anni Trenta, un bambino lasciato solo a causa delle convenzioni del tempo, e una zia che rinchiude la nipote in soffitta per non imbrattare il nome della famiglia. È una storia perfetta nella sua imperfezione, realmente accaduta, un’icona di tante esistenze che possono raccontarsi nella figura di Dirce, la protagonista. È la storia che Emanuela Sbordi, la nipote, vorrebbe fosse catturata attraverso la cinepresa: «Mi piacerebbe che un regista, un giovane, o un appassionato del mondo cinematografico, rappresentasse sullo schermo la vita di mia nonna, che ha sofferto e lottato per la propria libertà individuale, contro le ipocrisie del tempo, rivendicando l’autonomia delle donne». Il suo appello è gia sfumato una volta, sette anni fa, quando – sulle pagine del quotidiano locale Libertà – manifestò la volontà di chiedere al noto regista piacentino Marco Bellocchio di mettere in scena l’esperienza di sua nonna.
La trama (che poi è altro non è che un vissuto autentico e veramente sofferto) ruota attorno a Maria Dirce Sbordi, nata nel 1904 a Centovera (una frazione del comune di San Giorgio Piacentino) e morta nel 1974 all’età di settant’anni, con una vita pesante e ricca alle spalle. È la prima di tre figli, cresce in campagna e, giovanissima, mentre la madre attende il quarto figlio, vede il padre ammalarsi e morire. In seguito alla scomparsa del marito, la madre di Dirce si risposa con un vedovo di Centovera e rimane incinta, in tutto ha undici figli. A questo punto, la svolta: una zia arcigna e zoppa (utilizza una scarpa ortopedica con la zeppa, perché sua madre l’ha fatta cadere dalle scale di casa e non l’ha medicata adeguatamente all’anca), che potrebbe rivestire perfettamente il ruolo dell’antagonista, bussa alla porta della sua esistenza, strappandola dal suo piccolo paesino. Dirce è costretta a trasferirsi di fianco alla chiesa di Santa Brigida in via Castello a Piacenza, a crescere con lei e a imparare il suo mestiere (all’interno di una rinomata sartoria cittadina), subendo la severità e l’anaffettività della donna. Dirce, a 27 anni, rimane incinta, ma non ha un marito (la zia cattiva le impedisce di sposare il suo compagno, tanto da raggiungerlo in un’osteria e assalirlo con un martello): per la zia è una situazione inaccettabile e vergognosa. Rinchiude la nipote in soffitta, lasciandole una macchina da cucire per non smettere di lavorare e obbligandola a vivere all’ombra di una società arretrata e farisea. Il parto avviene furtivamente, nella notte, a Milano, dove viene trasportata a bordo di una carrozza. La giovane rimane nel capoluogo lombardo per qualche mese in brefotrofio per allattare il piccolo Enzo, il quale poco tempo dopo va in affido ad una famiglia brianzola.
Dirce non si dimentica del bambino: periodicamente lo raggiunge, portandogli regali, alimenti e vestiti, consapevole dell’impossibilità di allevarlo – agli occhi degli altri – nella sua condizione di “ragazza-madre”. Allo scoppio della guerra, quando ormai Enzo ha 9 anni, Dirce trova il coraggio di riprenderselo e portarlo a Centovera. Certo, la forza di cambiamento è favorita anche dalla morte della severa zia, un avvenimento che permette a Dirce di sentirsi libera di vivere la propria vita. Enzo cresce tra l’amore e la serenità ritrovata nella provincia piacentina, anche se in un primo momento parla solo in dialetto bergamasco e non riconosce in Dirce la sua mamma. La strada, comunque, si riassesta, tutto sembra andare per il meglio. A 32 anni, però, Enzo muore e Dirce è privata dell’amato figlio.
È una storia tristemente comune a tante donne dell’epoca, ma ugualmente eccezionale, che vale la pena raccontare. L’arzilla sorella di Dirce, Nella, che oggi risiede nell’ospizio di San Giorgio, ha contribuito a ricostruire queste controverse dinamiche. «Ci sono tutti gli ingredienti per confezionare un’ottima pellicola – spiega Emanuela Sbordi -, compreso il terribile finale a sorpresa. Auspico che qualcuno possa realizzare questa sceneggiatura, mia nonna se lo merita».
Thomas Trenchi