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La fuga del cinghiale Agostino dalla montagna alla città. Da cosa scappava?
Sono trascorse più di due settimane dall’uccisione di “Agostino”, il cinghiale che si era fatto voler bene dai piacentini, nonostante avesse occupato “abusivamente” il Parco della Galleana. La notizia riempì le pagine delle testate nazionali. Le autorità nel frattempo furono costrette a isolare l’area verde per diversi giorni. Alcune squadre di cacciatori provarono in tutti i modi a catturarlo, arrivando a un epilogo inaspettato (e per certi versi criticato): durante l’ennesimo tentativo fallito, l’ungulato reagì e gli operatori dovettero fare fuoco uccidendolo.
Quella di “Agostino” è stata una fuga dalla montagna verso la città che potrebbe ispirare il mondo cinematografico a realizzare uno splendido cartone animato per bambini. Forse anche per adulti. La fuga di “Agostino”, infatti, apre un dibattito di forte attualità, che necessita una riflessione approfondita e matura. Cosa può aver indotto un fiero cinghiale a chiedere “asilo politico” in un parco cittadino? L’agrotecnico e professore di scienze Stefano Soavi analizza le motivazioni che potrebbero aver portato “Agostino” a scappare dal suo habitat naturale, diventando – di fatto – un migrante.
Perché le specie selvatiche si stanno avvicinando ai centri abitati?
«Non ci troviamo di fronte a un fenomeno nuovo, le nostre città sono sempre state una terra di conquista per gli animali selvatici. La mancanza di predatori e la grande disponibilità di cibo hanno attirato continuamente invasori pennuti o pelosi di diverse specie. Abbiamo addirittura molte evidenze che le città del passato, più sporche e senza un’adeguata raccolta dei rifiuti, fossero ben più popolate rispetto ad oggi. Ad esempio le grandi capitali un tempo ospitavano popolazioni di corvi imperiali e nibbi bruni, uccelli spazzini che in città – senza un sistema di raccolta dei rifiuti – trovavano decine di occasioni per alimentarsi. Probabilmente è proprio da questo che deriva la leggenda dei corvi della torre di Londra. Esistono decine di altri esempi eclatanti, anche solo restando in Europa, di come sia radicato il rapporto tra fauna selvatica e centri abitati. Uno degli uccelli più affascinanti che esistano, il rondone, in tutta l’Emilia Romagna e la Lombardia nidifica solo negli insediamenti urbani, sfruttando solo gli edifici dei centri storici. Ma il rapporto tra insediamenti e animali è in anche continuo mutamento, ne sono prova almeno due tipi di animali: il gabbiano reale, uccello marino ma straordinariamente opportunista che ha recentemente imparato a “sfruttarci” come risorsa alimentare, e varie specie di pappagalli che sfruttano il microclima più caldo per proliferare. Insomma, i selvatici ci circondano ogni giorno, anche a Piacenza, solo che non ci soffermiamo abbastanza ad osservarli e forse non siamo in grado di riconoscerli e di apprezzare quanta biodiversità sia presente in città».
Qual è la causa della “migrazione” del celebre cinghiale “Agostino”?
«Pur accettando che la fauna selvatica sia elemento ineluttabile delle nostre città con cui dobbiamo accettare di convivere, il caso di “Agostino” rappresenta una situazione su cui ragionare a parte. Si tratta di un singolo animale che accidentalmente è entrato in città. Occorre anche precisare che il suino ha occupato i boschetti del Parco Galleana, un’area che, sebbene piccola, garantisce elementi di naturalità in prossimità del tessuto urbano. I cinghiali non fanno parte della “fauna urbana” piacentina, ma frequentano le campagne circostanti. Perciò un esemplare come “Agostino”, durante la ricerca del cibo, deve aver raggiunto il parco dalle campagne limitrofe».
Bisogna contenere la riproduzione dei cinghiali?
«Il cinghiale si era estinto in tutta l’Emilia Romagna, come in gran parte d’Italia, già a fine 800. Dal 1970 questo animale è tornato sulle nostre colline, ma non sulle sue zampe: è stato reintrodotto a scopo venatorio. Un fatto indiscutibile. Gli esemplari immessi sul territorio però non appartenevano alla sottospecie relativamente piccola e adattata al nostro ambiente appenninico, anzi, erano incroci tra varie sottospecie europee o addirittura con i maiali domestici: animali troppo grossi e prolifici per non impattare negativamente sull’agricoltura e sugli ecosistemi locali. Risulta quindi necessario mettere in atto ogni strumento per limitarne la proliferazione. Ricordiamo che questa specie non appartiene ai nostri ambienti e alla nostra fauna, pertanto non bisogna temere la parola “abbattimento” in alcune circostanze. Sarebbe importante ragionare proprio sulla modalità per far comprendere alla popolazione la necessità di ridurre drasticamente questa specie. Tuttavia, per mettere in atto una seria opera di contenimento, è necessario capire perché questo animale sia arrivato ad affollare le nostre colline e stia iniziando a colonizzare persino gli ambienti agricoli di pianura. Abbiamo detto che il cinghiale è stato introdotto a scopo venatorio. Ma non basta: la velocità con cui la specie ha saturato il territorio provinciale in meno di 40 anni lascia il sospetto che questi rilasci siano stati numerosi e prolungati, forse accompagnati da opere di foraggiamento di alcune popolazioni. Risulta evidente che per agire seriamente è necessario vigilare affinché queste scellerate operazioni non si ripetano. Se qualcuno assiste al rilascio in natura o al foraggiamento è testimone di un illecito e ha il dovere di segnalarlo alle autorità. Il problema è iniziato con un errore umano e il minimo per risolverlo è smettere di ripetere lo stesso sbaglio».
Quanto si deve conoscere a proposito della fauna selvatica per poterla gestire al meglio ed evitare impatti negativi a livello sociale ed economico?
«Conosciamo abbastanza bene la fauna selvatica e gli studi proseguono costantemente. Credo che abbiamo tutti i mezzi per gestirla al meglio, riuscendo sia a preservarla sia ad evitare impatti negativi sulle attività umane. Il problema della gestione non è tanto sul piano scientifico, quanto su quello sociale e politico. Il caso di “Agostino” è emblematico: la città si è divisa tra chi voleva sparargli e chi voleva intrappolarlo, chi voleva finanziare un progetto di cattura non cruenta e chi si è scandalizzato per la cifra pagata al veterinario, chi era semplicemente infastidito dalla chiusura del parco e chi non era minimamente interessato all’argomento. La politica locale, in tutto questo, doveva cercare di risolvere il problema, accaduto in piena campagna elettorale, cercando di accontentare tutti o almeno i propri potenziali elettori. La gestione della fauna sostanzialmente risponde a queste stesse logiche su scala più ampia. Cacciatori, animalisti e agricoltori si aspettano risposte che li accontentino e, comprensibilmente, ai politici non piace perdere potenziali elettori. Tuttavia, servirebbe il coraggio di scontentare, almeno momentaneamente, il proprio bacino elettorale e prendere in considerazione soluzioni dettate da competenze tecniche e scientifiche. Gli strumenti li abbiamo, occorre il coraggio di metterli in pratica».
Un piano faunistico territoriale di quali elementi di sostenibilità dovrebbe tener conto?
«Un piano faunistico dovrebbe essere basato su semplici regole di buonsenso. La fauna selvatica e la biodiversità sono valori da tutelare, dunque non possiamo pretendere che sia una minoranza di cittadini, nello specifico gli agricoltori, a subire i danni che ne derivano. Occorre conciliare le esigenze del tessuto produttivo e della protezione della natura, partendo dai dati relativi al territorio (densità della popolazione, andamento annuale dei danni, colture maggiormente colpite), passando per la biologia della specie e le tecniche di contenimento più efficaci. Ritengo che i piani faunistici della provincia piacentina siano sempre stati ben studiati. Dal 1° gennaio 2016, però, la gestione della fauna selvatica è diventata di esclusiva competenza regionale e i piani faunistico-venatori provinciali, attualmente in vigore, verranno gradualmente sostituiti. Si tratta di una vera e propria rivoluzione di cui vedremo nei prossimi anni aspetti positivi e negativi. Mi lascia perplesso l’idea di un piano che gestisca, accorpandole, porzioni così ampie e spesso diversificate di territorio. È ancora presto per giudicare».
Thomas Trenchi