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«Piacenza non ha un’identità. L’arte può elevare le persone». Intervista a Franco Scepi
Franco Scepi ha 76 anni, qualche capello bianco e una miriade di esperienze sulle spalle. È stato architetto scenografo alla Scala, designer a Milano e autore di film. Ha sperimentato tutti i media e tutti i linguaggi, dal teatro al cinema, dalla pubblicità alla pittura. Tante iniziative di successo hanno plasmato la sua carriera: nel 1985, per esempio, ha realizzato una performance con Roberto Benigni all’Ateneo di Milano, dal titolo “Benigni in computer”, dove l’attore è stato trasformato elettronicamente nella Gioconda leonardesca. Nel 1991 ha dipinto tre ritratti di Gorbaciov (ancora presidente dell’URSS) dal titolo “Senza Warhol”, con la tecnica appresa dal maestro della Pop Art. Dal 1964 si è occupato anche del rapporto tra arte e pubblicità per innumerevoli aziende private. Nel 2000 ha elaborato la strategia per il marchio del nuovo centro fieristico Piacenza Expo. È celebre il suo monumento “Scepi’s Man of Peace“, la storica opera realizzata nel 1977 in segno di auspicio per la fine della Guerra Fredda, ispirata all’impegno dell’allora Arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla e sottoscritta da tutti i Premi Nobel per la Pace del Mondo.
Scepi fatica a comprendere a pieno l’età contemporanea, «troppo veloce, basata sulla rimozione continua, racchiusa nei social network e su internet», ma ha il caposaldo della corrente da lui ideata, l’Over Ad Art: «Ho capovolto il senso della Pop Art e ho contrastato le intenzioni di Wharol, che puntavano solo al business. Ho creato immagini nuove che – invece di abbassare l’immaginario collettivo, tipo la Fontana di Duchamp – incentivavano un mercato consapevole e rifiutavano il consumismo totale. Solo l’arte può far emergere la parte migliore degli esseri umani. La guerra è distruzione, l’arte è costruzione. È importante applicarla alla vita quotidiana. Amo i monumenti perché non vengono rinchiusi nelle gallerie, ma si trovano in mezzo alle strade, tra la gente».
Cosa lega la sua figura a Piacenza?
«Pur avendo una cultura milanese, forgiata durante l’attività con la mia agenzia di comunicazione, mio padre abitava a Piacenza. Per me rappresenta un luogo di riposo, svago e amicizie. Una meta nostalgica. Inoltre, mi sono occupato del marketing di De Rica, l’industria di conserve alimentari. Ho realizzato la celebre pubblicità con Gatto Silvestro che inseguendo Titti pronuncia lo slogan: “O no, su De Rica non si può”. Ho contribuito a dare all’azienda un’identità. Quella che ora manca alla città di Piacenza».
Oggi che momento sta attraversando il settore pubblicitario?
«Dopo il forte marketing dei primi anni Settanta, dagli Stati Uniti è arrivata una concezione pubblicitaria bugiarda, invasiva e violenta. Hanno smesso di creare una rilevanza attorno al marchio. Sull’ondata di questi cambiamenti, adesso la pubblicità è puramente promozionale. Lo scopo non è più quello di pensare a un sistema che dia valore al soggetto, ma di vendere all’impazzata. C’è una fame assoluta».
Piacenza capitale della cultura 2020: è una candidatura fondata?
«Certo. Come tutte le città italiane ricche di storia, anche Piacenza ha un potenziale enorme».
Su quale tipo di promozione territoriale bisognerebbe investire?
«Occorre pensare alla valorizzazione di una città esattamente alla pari di quella di un prodotto commerciale. Non è più il periodo di azioni istintive. Serve ragionare in modo razionale, compiendo analisi precise. L’assessore Massimo Polledri ha fatto un ottimo lavoro, in tempi da record. Fissare una serie di incontri con associazioni, privati e istituzioni per evidenziare i punti di forza di Piacenza è stata un’iniziativa positiva, quasi eroica, considerando che l’Amministrazione non ha una lira».
Ma?
«Non mi piace la conclusione a cui si è giunti: è vaga e debole. Parlare della città come “Crocevia di Culture” vuol dire renderla uno spazio puramente di passaggio, privo di tratti esclusivi e identificativi, annullando gli elementi che potrebbero contraddistinguerla».
È stato un errore non rinnovare il Festival del Diritto?
«Non lo so, non l’ho mai seguito approfonditamente. Dobbiamo sdoganare Piacenza e farla diventare una città luminosa. Il termine “diritto” è polveroso».
Ha collaborato per parecchio tempo con il Comune di Milano, promuovendo la manifestazione “La via del Cinema – Panoramica del film di Venezia” che dagli anni ’80 ha portato nel milanese le pellicole della Biennale. Che operazione ha tentato di fare in quell’occasione?
«A Milano, nel 1975, esisteva il fenomeno del terrorismo. La percezione degli abitanti era legata al pericolo e alla paura, perciò rimanevano chiusi in casa. Era stata messa da parte, insomma, l’ondata di divertimento degli anni Sessanta. In collaborazione con la Giunta del capoluogo lombardo, ho cercato di colorare l’immagine grigia – data la nebbia morale che aleggiava – di Milano. Oltre al festival cinematografico, ho portato il Carnevale Ambrosiano e ho ridato ossigeno alla cultura popolare».
Anche Piacenza ha un aspetto grigio?
«Questa città non ha alcun aspetto. È un fattore diverso. La prima cosa che si nota arrivando dalla Lombardia è la presenza di due ciminiere. Sembra casomai un presidio industriale. Piacenza ha tante cose interessanti da raccontare, senza inventare favole».
A Bobbio il 23 novembre verrà esposto il suo noto monumento “L’Uomo della Pace di Scepi”.
«Esattamente, durante la ricorrenza di San Colombano. Bobbio, grazie al sindaco Pasquali e al regista Marco Bellocchio, ha saputo ritagliarsi un palcoscenico internazionale. Questo borgo è stato in grado di risorgere tra la tradizione e l’innovazione. La collocazione – un simbolo di fratellanza che congiunge fede e impegno civile – verrà dedicata a Zaglady, storico consigliere di Mikhail Gorbaciov, deceduto recentemente».
Lei è stato amico di Mikhail Gorbaciov?
«Ci siamo corrisposti e incontrati a lungo, con l’aiuto di un interprete. Ama il territorio piacentino, in particolare dopo che la moglie pose di persona sulla Madonna della Chiesa di Sant’Eufemia una collana di pietre preziose. “L’Uomo della Pace” è stato sottoscritto da tutti i Premi Nobel per la Pace e, con l’appoggio e l’intuito fondamentale di Marzio Dallagiovanna, è passata tra le mani di Benigni, Lech Waleza, il Dalai Lama, Betty Williams, Papa Wojtyla, Bob Geldof, Massimo Cacciari, Rita Levi-Montalcini…».
Thomas Trenchi