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Integrazione non significa annullarsi. Trent’anni fa la sfida albanese a Piacenza
L’integrazione è possibile. Me ne sono reso conto – o meglio: ho avuto la conferma – durante la vendemmia in un’azienda agricola sui colli piacentini. In particolare, hanno colto la mia attenzione due persone albanesi: un uomo che, mentre trasportava le casse d’uva, parlava il dialetto piacentino; una donna che, mentre tagliava dai ramoscelli i chicchi per fare il vino, spiegava a una “collega” come preparare i tortelli con la coda. In perfetto italiano, ovviamente. Due albanesi arrivati, magari, su gommoni sgangherati ventisei anni fa al porto di Brindisi, quando l’Italia scoprì di essere una meta per migliaia di profughi che fuggivano dalla crisi economica e dalla dittatura comunista in Albania. Solo in un giorno ne arrivano 27mila. E il Belpaese non era pronto ad accogliere un flusso umano così grande: come oggi. Tra loro si nascondevano disperati e malintenzionati. Ma anche tante persone perbene che nel tempo si sono amalgamate alla cultura ospitante.
La forza è stata proprio questa: gli albanesi – che adesso spesso sono imprenditori o lavoratori stabili – lentamente, pur non rinunciando ai propri tratti distintivi, hanno accettato le tradizioni italiane, le hanno apprezzate e le hanno fatte proprie. E gli italiani, a loro volta, forti dei loro valori, hanno aperto le porte della conoscenza ai costumi albanesi. Integrazione non significa annullarsi o vivere secondo le regole stabilite da altri, ma rinforzarsi a vicenda con la consapevolezza di limiti e opportunità.
Spulciando negli archivi del Quotidiano Libertà presso la biblioteca Passerini Landi, ho trovato un articolo del 1991 focalizzato sulla presenza di immigrati albanesi nel piacentino. “La ridistribuzione su tutto il territorio nazionale degli albanesi giunti recentemente in Italia dovrebbe interessare anche la provincia di Piacenza. Finora, però, non è stato possibile definire il numero e la sistemazione dei futuri ospiti. L’Emilia Romagna ha espresso un’opzione per i minori, e si prevede che le vengano complessivamente assegnati 600 giovani (tutti di sesso maschile) di età compresa fra i 14 e i 18 anni. La nostra Provincia è fra quelle che non hanno approvato la scelta che privilegia i minori”, si leggeva su Libertà. L’allora assessore ai servizi sociali spiegava, con preoccupazione, che “mancano strutture adatte per accogliere questi ragazzi e che bisognerebbe organizzare corsi di alfabetizzazione e di orientamento al lavoro. Piacenza e provincia sono in grado di accogliere una trentina di ragazzi”.
“Effettueremo ulteriori verifiche – proseguiva nel 1991 il presidente della Provincia Migliavacca -, dopodiché comunicheremo se a Piacenza c’è effettivamente la possibilità di accogliere i minori. In caso di risposta negativa da parte nostra, non è escluso un provvedimento impositivo del Governo sotto forma di ordinanza prefettizia“. La situazione era già complessa. Il Comune di Piacenza, in quei giorni, ospitava tredici albanesi presso il collegio Santo Stefano. Le spese sostenute dagli Ospizi Civili e dalla Caritas (rimborsate dallo Stato) per il servizio mensa e per l’alloggio erano di 40mila lire al giorno per persona.
Attualmente, la popolazione proveniente dall’Albania nella provincia di Piacenza è di circa 6.300 unità. La sfida dell’integrazione con gli albanesi è stata vinta? Credo di sì. Quanto ci è costata? Non lo so. Fatto sta che questo popolo non spaventa più: è parte attiva dell’Italia.
Il banco di prova, in questo momento, è con la grande ondata migratoria che proviene da diverse nazioni del continente africano, per nulla comparabile a quella di ventisei anni fa. È con la cultura islamica, con il velo difficile da digerire, con la concezione della donna, con la mala gestione del fenomeno e con gli scandali annessi. Con la nostra identità che non deve cancellarsi ma neanche chiudersi a riccio, pretendendo giustamente legalità e voglia di fare.
Thomas Trenchi