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Valentina Ghelfi, quando fare l’attrice è anche una battaglia culturale

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«Ho un occhio arrabbiato e un occhio triste». Piacentina classe ’94, diplomata al Piccolo Teatro di Milano. Dicono di lei che è una delle attrici più promettenti in circolazione. Chissà se è vero. Non saremo certo noi a stabilirlo. Sicuramente non è una ragazza che punta solo alla carriera, ma nel parlare ha svelato un animo molto attento ai temi sociali. O meglio, a come il suo lavoro possa avere anche una connotazione civile.

Da dove viene la citazione iniziale? Da un video che trovate su YouTube e mi ha colpito. Valentina Ghelfi è nel camerino e si guarda allo specchio, in attesa di salire sul palco per il debutto. Sta già recitando o è naturale? Dopo questa intervista, magari, avrete le idee più chiare. O forse no.

Iniziamo da una domanda semplice: come ti definisci come attrice?

«Aiuto, questa dovevo prepararmela. Per me è scottante, in questo momento, perché sto cercando di capire chi sono, dove voglio andare, cosa mi interessa e per cosa voglio lottare. Sono uscita dall’accademia, dopo 3 anni in cui sono stata completamente assorbita da quel luogo sette giorni su sette. E’ stata fondamentale, totalizzante, una sfida continua, ma allo stesso tempo alienante. Mi ha trasformata molto. E adesso che sono fuori è come se dovessi scolpirmi una mia identità. Il percorso mi ha arricchito, però tocca a me aggiornare la mia formazione, sapere cosa studiare, con chi, che lavori fare, dove indirizzare le energie. Quindi Valentina si sta costruendo».

Ci sono ambiti che preferisci? Teatro, cinema, o sei interessata a spaziare?

«Il teatro è il mio primo grande amore. Quindi, di certo, mi vedo lì. Da quando sono fuori dall’Accademia, in realtà, ho lavorato più in ambito cinematografico. Che naturalmente mi interessa. Allora, onestamente, definirlo “cinema” è ancora presto, senza sminuire quello che sto facendo. Però mi interessa tutto, anche perché sto cercando di costruire un mio linguaggio e quindi sperimentando ogni tipo di mezzo posso cominciare a capire quello che mi appartiene».

Quali sono i tuoi modelli?

«Quello di riferimento è una figura americana e cioè Lena Dunham, un’autrice, regista e autrice, diventata famosa per una serie della HBO che si chiama Girls. Una versione attualizzata di Sex and the City, in cui le protagoniste non sono donne in carriera ma ragazze che devono confrontarsi con i fallimenti, con il sesso, i problemi del lavoro e realizzare i propri desideri. Per come scrive e gli argomenti che affronta lei è il mio modello. Nel panorama italiano ci sono altri attori o attrici che stimo molto. Come Leonardo Lidi, che ho conosciuto e mi aveva insegnato tanto. Oppure César Brie, Maria Paiato e Arianna Scommegna. Dal punto di vista cinematografico, mi piacciono molto i registi Alice Rohrwacher e Pupi Avati. Con quest’ultimo, in particolare, mi piacerebbe davvero lavorare. Perché l’ho incontrato all’Accademia e umanamente e artisticamente è generoso e accompagna l’attore. Una esperienza preziosa».

Esiste una rinascita del cinema italiano? Da Romanzo Criminale in poi, con Gomorra, Suburra e tante altre pellicole simili. 

«Non seguo questi film o serie tv, non mi sento di parlarne con giudizio. Di certo hanno avuto una risonanza per come trattano certi temi. Certamente hanno il merito di aver lanciato tanti giovani attori, che teatralmente sono dei mostri. Forse sono una risorsa, per arrivare a un intrecciarsi più forte tra cinema e teatro, non solo per far emergere talenti».

Il tuo rapporto con Piacenza? Ultimamente abbiamo sentito Letizia Bravi e Leonardo Lidi, che per motivi diversi tornano spesso. 

«Piacenza è stata la mia culla. Sono cresciuta e sono stata arricchita dai Filodrammatici come lavoro e studio. Mi interessa tornare, ma è come se sentissi prima il bisogno di costruirmi al di là di Piacenza. Un taglio alle radici, per affermarsi indipendente da dove si viene e poi tornarci arricchita. Sono in questa fase. Prima di tornare e dare qualcosa mi sembra di dover ancora fare tanto. In realtà sto cercando cose da altre parti. M sono sicura che tornerò. Tra un po’».

E il tuo rapporto con i piacentini e la città?

«Ho visto crescere, soprattutto nell’ultimo periodo, realtà nate da giovani. Che si sono impegnati per eventi di condivisione, soprattutto musicale. Penso a Spazio4 o i vari festival. Forse quelli che si lamentavano quando erano ragazzini si stanno dando da fare per cambiare le cose. La vedo come una città che si sta svegliando e credo molto nella volontà di accendere delle luci. E poi le mie amiche sono lì, quelle del liceo. Quando torno mi sento sempre molto amata e mi fa bene ritornare a casa».

Mi ha colpito il video su YouTube dove metti in evidenza il tuo viso, dicendo «ho un occhio arrabbiato e un occhio triste». Sono due aspetti che ti caratterizzano?

«La rabbia, purtroppo no. Dico purtroppo, perché per me è un sentimento di cui un po’ mi vergogno. Mi sento più a mio agio a esprimere la tristezza, che è più accettata rispetto alla rabbia che implica invece una ribellione violenta. Purtroppo dovrei arrabbiarmi di più per certe cose, che non funzionano, che non accetto e invece mi sforzo di comprendere e giustificare. Non rabbia come violenza ma come forza per cambiare e raggiungere degli obiettivi».

Se chiudi gli occhi, tra qualche anno dove ti vedi?

«Tra Milano e Roma. A lavorare nel cinema e in teatro e a fare avanti e indietro con tanti progetti. Sto parlando di grandi desideri, senza farmi influenzare dal realismo. Non sarà semplice, ma sono pronta a credere di poter realizzare quello a cui aspiro».

Ora, però, la tua città è Milano. Perché hai deciso di rimanere?

«In questo momento sono molto legata a Milano e sento che è necessario che rimanga qui, soprattutto per il collettivo LUME (Laboratorio Universitario Metropolitano) di cui faccio parte da un anno, che nasce come centro sociale ma con obiettivi culturali. Per portare la cultura a prezzi accessibili a chi non se lo può permettere o a chi di solito non segue il teatro. E’ stato sgomberato a luglio e la settimana scorsa ha rioccupato il Cinema Nuovo Orchidea, vicino a Cadorna. In realtà con questo atto politico vuole spingere a far ripartire i lavori in uno spazio prima abbandonato. Una realtà che mi sta permettendo di crescere molto umanamente e artisticamente. Con amici e colleghi con cui si è creata la possibilità di domandarmi a cosa voglio aspirare. Coltivare il mio orto o pensare di fare qualcosa che vada oltre me? Mi sta dando la possibilità di portare avanti una battaglia culturale».

Dove ti vedremo, sul palco, in tv o al cinema prossimamente?

«Tra poco in “Una webserie senza nome”. Una produzione giovane e indipendente. Sono stata selezionata e abbiamo iniziato a girare in questi giorni, quindi al massimo tra un mesetto vedremo il risultato. Si tratta di un primo progetto che in base alla risonanza speriamo possa continuare».

E dopo questa intervista arriverà una chiamata di Leonardo Lidi per collaborare. 

«Magari!».

Gianmarco Aimi

Muove i primi passi alla Cronaca e dopo un anno passa alla Libertà. Nel frattempo entra nella redazione di Radio Sound. Da sei anni collabora con il Fatto Quotidiano e attualmente dirige le riviste Soccer Illustrate e Sport Tribune, oltre a essere tra i contributors di Riders magazine.