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Ranuccio Farnese: il duca antipatico di cui i piacentini ricordano solo il cavallo

Ranuccio, duca di Piacenza e Parma, ha saputo incarnare l’arroganza del potere. Di lui si ricorda solo il destriero: la piazza infatti ha assunto il nome di “Piazza Cavalli”, e non “Piazza Farnese”

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Non sono bastate due splendide statue in bronzo, argini ben edificati, una legislazione moderna, mura cittadine nuove di zecca e qualche guerra vinta. Ranuccio Farnese non è mai entrato nelle grazie dei piacentini. Cresciuto in quello spazio metafisico tra la solitudine di un figlio abbandonato e il peso di un cognome da non tradire, Ranuccio, duca di Piacenza e Parma dal 1592 al 1622, ha saputo incarnare l’arroganza del potere. Una strafottenza esteriore inevitabilmente legata ad una più profonda debolezza interiore.

La madre, Maria d’Aviz, nobile portoghese, muore nel 1577, quando il ragazzo ha solamente 8 anni. Il padre, Alessandro, nell’anno stesso della morte della moglie, attraversa le Alpi, raggiunge le Fiandre, ne diviene governatore e non fa più ritorno a casa. Non rispettando la tradizione familiare, il figlio sceglie la penna e il calamaio, piuttosto che la spada. Non diventa così un soldato, preferendo occuparsi di diritto e amministrazione. Armi, forse, più potenti di quelle utilizzate dal padre, grande condottiero che sta ridisegnando l’Europa attraverso guerre sanguinarie. Alessandro, nonostante la distanza, non si dimenticherà mai del figlio: Ranuccio è infatti il successore naturale al titolo di Duca, nonché pedina fondamentale per mantenere il controllo su quel pezzo di terra.

Ranuccio diventa reggente e conosce il potere

A 17 anni, quando muore il nonno Ottavio, il giovane viene nominato reggente di Piacenza e Parma dal padre, che, pur avendo appena ereditato la carica di Duca – vista la lontananza geografica – non può esercitarla al meglio. Periodicamente, gli invia istruzioni e ammonimenti. Durante questo periodo di reggenza, Ranuccio comprende i meccanismi del potere e la fugacità a cui esso è soggetto: i nobili non vogliono rinunciare ai loro privilegi e il Ducato, ormai dimenticato e sottomesso al potere papale, conta sempre meno a livello politico. In più, le risorse scarseggiano: la costruzione di Palazzo Farnese viene interrotta.

Probabilmente è proprio tale instabilità che provoca al ragazzo paura e insicurezza, le quali si traducono in un dispotismo spietato, arricchito da un divertente scetticismo che comporta rituali ed esorcismi. Anche la sua fede cattolica è dettata dalla necessità d’apparire, propiziarsi una specifica fetta di popolazione. Perché, come dimostra la storia, per rimanere in piedi servono radici saldamente intersecate tra tutti i ranghi sociali.

La morte del padre Alessandro Farnese

Nel 1592, Alessandro viene ferito a una mano dall’esercito francese. La sua salute, già da tempo compromessa, peggiora definitivamente. Così chiama in suo aiuto il figlio, che lascia per qualche settimana la pianura padana e va a dirigere le truppe del padre. Giusto il tempo di vederlo morire nella notte tra il 2 e il 3 dicembre.

Chissà se per Ranuccio è un addio doloroso o liberatorio; certamente è l’estremo saluto di un genitore che non è mai stato presente, che si è interessato a lui solo per scopi politici e che, tuttavia, gli sta lasciando una grande responsabilità: la carica di Duca di Piacenza e Parma. Ruolo che crede di esser pronto a ricoprire già da diversi mesi.

Nel 1594, Ranuccio emana le Costituzioni. Si tratta di un codice di leggi innovative, con cui i suoi successori dovranno confrontarsi e scontrarsi. Il documento prevede l’abolizione del lavoro festivo, la proibizione della coltivazione del riso in quanto portatrice di malaria, la realizzazione di numerose bonifiche e la razionalizzazione dello smaltimento dei rifiuti. Il Ducato prende, per la prima volta, una forma amministrativa moderna e specifica. Pensa, inoltre, a conquistare i beni altrui: Colorno e Sala Baganza.

Ciò nonostante, Ranuccio ha ancora troppe difficoltà a controllare il territorio, conteso da una nobiltà potente e ben radicata. Anziché cercare un compromesso, avvia una politica antifeudale a discapito dell’aristocrazia. Nel 1606, riserva solo a sé il diritto di caccia, scatenando parecchi malumori. Da tempo preoccupato di esser vittima di congiura, come molti suoi antenati, fa decapitare sette nobili e impiccare quattro plebei sospettati di cospirare contro di lui. Un gesto plateale, d’esempio per le altre famiglie che mettono in discussione la sua autorità.

L’ardua ricerca di un erede al trono

Dopo numerose amanti, gli interessi politici lo obbligano alle nozze: sancisce la pace con la famiglia toscana degli Aldobrandini, sposando l’undicenne Margherita. Quest’ultima, inoltre, ha un nonno prestigioso: Papa Clemente VIII, potentissimo sovrano dello Stato Pontificio. È proprio lui a celebrare la benedizione della loro unione, il 7 maggio 1600.

Nei primi dieci anni della loro relazione, a causa della giovanissima età della donna, i due non riescono ad avere un figlio, necessario per portare avanti la dinastia dei Farnese. L’uomo, immancabilmente superstizioso, crede che Margherita sia infeconda a causa di alcune maledizioni. La colpa ricade su Claudia Colla, ex amante del Duca, la quale viene condannata per stregoneria. Ranuccio, non riuscendo a diventare padre e preoccupato di non garantire un erede al trono, nel 1605 riconosce Ottavio, avuto nel 1598 con un’altra donna.

Finalmente, nel 1610, Margherita rimane incinta, ma la gioia è solo passeggera: nasce Alessandro, al quale viene affidato il difficile nome del nonno, che purtroppo è sordomuto (pertanto inadatto a succedere al padre). Dopo dodici anni di insoddisfacente matrimonio con una donna brutta e non amata, nel 1612 nasce Odoardo e finalmente il Duca ha una prole legittima. Ottavio viene istantaneamente escluso dalla successione al trono: va su tutte le furie e progetta l’omicidio del padre. Ranuccio – premurosamente – lo fa rinchiudere in prigione. Negli anni successivi, nascono altri tre figli.

Palazzo Gotico 1

Piazza Cavalli e Palazzo Gotico a Piacenza

Piazza dei Cavalli: inconsapevolezza o vendetta?

Ranuccio non gode affatto di popolarità: nonostante i lungimiranti provvedimenti attuati, è un personaggio antipatico e a tratti folle. Nel 1622 muore d’improvviso, non prima d’aver lasciato un’ultima reminiscenza della sua presunzione. Nel 1612, la cittadinanza – tramite il Consiglio degli anziani – chiede a Ranuccio il permesso di erigergli una statua quale prova di lealtà e affetto alla dinastia regnante dei Farnese, avvertendo la necessità di dimostrare lontananza dalle tentazioni di ribellione duramente punite in passato. Il duca gradisce e fa sapere che occorre onorare anche la memoria del padre.

Ranuccio commissiona allo scultore toscano Francesco Mochi due statue equestri in bronzo: la prima raffigurante Alessandro che cavalca un destriero, simbolo del suo valore in guerra; la seconda rappresentante se stesso fieramente a cavallo. Indizio non indifferente di quanto sia ingombrante la figura del genitore e di quanto voglia eguagliarla, tanto da farsi ricordare in una veste che non gli appartiene: quella da cavaliere.

In questo modo, la città è costretta a sostenere una spesa ben maggiore del previsto, sottostando al desiderio del sovrano. I due capolavori vengono collocati nella Piazza del Comune di Piacenza, al centro della città. Per i piacentini, da tempo scontenti, è l’occasione – può darsi  inconsapevolmente – per vendicarsi. In qualsiasi città del mondo la piazza sarebbe stata chiamata “Piazza Farnese“. Qui, invece, in questa magnifica terra affacciata sul Po, la popolazione comincia ad utilizzare il nome “Piazza Cavalli“. D’altronde, di quelli che ci sono sopra, poco importa.

Thomas Trenchi

Classe 1998, giornalista professionista dell'emittente televisiva Telelibertà e del sito web Liberta.it. Collaboratore del quotidiano Libertà. Podcaster per Liberta.it con la rubrica di viaggi “Un passo nel mondo” e quella d’attualità “Giù la mascherina” insieme al collega Marcello Pollastri, fruibili anche sulle piattaforme Spreaker e Spotify; altri podcast: “Pandemia - Due anni di Covid” e un focus sull’omicidio di via Degani nella rubrica “Ombre”. In passato, ideatore di Sportello Quotidiano, blog d'approfondimento sull’attualità piacentina. Ha realizzato anche alcuni servizi per il settimanale d'informazione Corriere Padano. Co-fondatore di Gioia Web Radio, la prima emittente liceale a Piacenza. Creatore del documentario amatoriale "Avevamo Paura - Memorie di guerra di Bruna Bongiorni” e co-creatore di "Eravamo come morti - Testimonianza di Enrico Malacalza, internato nel lager di Stutthof". Co-autore di “#Torre Sindaco - Storia dell’uomo che promise un vulcano a Piacenza” (Papero Editore, 2017) e autore di "La Pellegrina - Storie dalla casa accoglienza Don Venturini" (Papero Editore, 2018). Nel maggio del 2022, insieme ai colleghi Marcello Pollastri e Andrea Pasquali, ha curato il libro-reportage "Ucraina, la catena che ci unisce", dopo alcuni giorni trascorsi nelle zone di guerra ed emergenza umanitaria. Il volume è stato pubblicato da Editoriale Libertà con il quotidiano in edicola. Ecco alcuni speciali tv curati per Telelibertà: "I piacentini di Londra" per raccontare il fenomeno dell'emigrazione dei piacentini in Inghilterra nel secondo dopoguerra, con immagini, testi e interviste in occasione della festa della comunità piacentina nella capitale britannica dal 17 al 19 maggio 2019; “I presepi piacentini nel Natale del Covid”; “La vita oltre il Covid” con interviste a due piacentini guariti dall’infezione da Coronavirus dopo dure ed estenuanti settimane di ricovero in ospedale; il reportage “La scuola finlandese” negli istituti di Kauttua ed Eura in Finlandia.