curiosità
Come si viveva a Borgotrebbia? «Tobruk divisa tra cooperativa e chiesa»
Giovannino Guareschi avrebbe potuto ambientare la storia di Don Camillo e Peppone a Borgotrebbia, una zona di Piacenza con oltre duemila residenti, storicamente divisa tra la parrocchia e la cooperativa. «Era un quartiere di sinistra. La prima cooperativa nacque nel 1949, costruita e finanziata da tutti gli abitanti del paese», con i proventi ricavati dal tesseramento al partito comunista o dalle sottoscrizioni spontanee dei cittadini. «Mio papà ci lavorava come oste. Io andavo lì per giocare. Nel 1954, aprì la nuova cooperativa. Si andò ad alimentare un forte contrasto tra quest’ultima e la Chiesa: i due luoghi non potevano essere frequentati parallelamente, occorreva prendere una scelta precisa. Una volta gli operai della cooperativa e il prete litigarono per la messa del 4 novembre in piazza Marchini. Discutevano… ma con profondo rispetto», racconta con un sorriso a trentadue denti Aldo Azzali, che forse attendeva da tempo questa domanda – come si viveva a Borgotrebbia? – per spolverare le memorie su Tobruk.
«Sono nato e cresciuto a Borgotrebbia, da 76 anni è la mia casa. Ho in mente tante immagini del passato. Da bambino giocavo sui forti della batteria, una montagnetta alta una decina di metri sulla quale poggiavano i cannoni durante la seconda guerra mondiale. Al posto della cooperativa, nel periodo del conflitto c’erano i rifugi sotterranei per proteggersi dalle bombe», prosegue la narrazione di Aldo. «In via Olubra – la così detta “Borgotrebbia vecchia” – rasero al suolo un’abitazione. In più un aeroplano inglese cadde sulle rive del Trebbia, così corremmo intorno alle macerie per rubare qualche vivere. Eravamo affamati. Nel dopoguerra, in mezzo a Tobruk si trovava la fornace. Con i miei amici ci arrampicavamo sulla scala interna del camino. Quando gli operai ci beccavano, noi scappavamo e loro ci rincorrevano. In strada si prendevano parecchi s’giaffon. Ed era meglio non dirlo ai genitori per evitare di prenderne altri!». In via Olubra e via Aveto, nei pressi di piazza Marchini, le lancette dell’orologio sono ancora ferme su quegli anni. Le porte sono spalancate, coperte solo da una tenda, e circondate da stendipanni e sedie di plastica per le chiacchierate serali. Mentre passeggio nella zona, da una finestra qualcuno osserva insospettito la mia faccia sconosciuta.
Aldo è stato il testimone di un sentimento collettivo che nella modernità sta lentamente scemando: «Quando mio padre dovette partire, i vicini mi aiutarono cucinando i pisarei e fasò. Inoltre, in occasione di un funerale si organizzava la colletta casa per casa da donare alla famiglia del defunto». E scavando a fondo nel pozzo dei dettagli preservati nel tempo, gli occhi di Aldo si illuminano quando rivede di fronte a sé la carovana di «zingari dal Montenegro» che intorno agli anni Cinquanta arrivò a Tobruk. «Occuparono una stalla e accesero il fuoco per scaldarsi, ma non rubavano e non disturbavano. Lavoravano per guadagnarsi da mangiare, erano nostri amici».
Continuando a rimbalzare tra il presente e il passato, Aldo sfila dal portafoglio cinque fototessere: sono i volti in miniatura dei nipoti, che mi mostra orgoglioso. Appese alla parete del bar Tobruk ci sono anche diverse fotografie d’epoca: «Guarda, questa è mia moglie. Ecco Prospero Cravedi, anche lui è cresciuto nel quartiere. E questi sono i quattro pasgatt di Borgotrebbia, li chiamavamo così», indica con una risata. In una cornice è contenuta una panoramica di via Trebbia probabilmente risalente agli anni Settanta. Aldo la osserva attentamente: «Dove sono collocati gli alloggi popolari, prima c’era un grande cortile in cui giocavamo a pallone tutto il giorno. E poi ci divertivamo con le biglie in mezzo alla strada».
In questo Borgo semplice e umile, orgoglioso della propria autosufficienza («pareva un fortino, gli estranei per entrare dovevano ottenere il benestare di noi abitanti», conferma Aldo), sono transitate molte figure peculiari, che hanno incuriosito e affascinato i piacentini. Il portale Piacenza Antica le ricorda alla perfezione. Pipon sciaplabar, ritratto come un ladro di galli al confine tra la natura e la galera. La prostituta Ada Barocelli, in arte la Cicci ad Tubruk: i nazisti non sarebbero mai entrati a Borgotrebbia perché “sostavano” tutti sotto le sue lenzuola. Al Tinu al matt, soprannome di Ernesto Maestroni, nato in via Trebbia, celebre perché – girovagando con una bicicletta fornita di pali, ferraglie e antenne – giurava di comunicare con i marziani.
La fondazione del quartiere fu opera di Pietro Marchini, impegnato tra la carriera militare e quella dell’industria dei laterizi. Come riassume Piacenza Antica, “combatté in tre guerre: Libia, Italo-Turca e primo evento bellico mondiale. Sul finire degli anni Venti fondò una moderna fabbrica di materiale edile. Tra gli anni 1911 e 1912 di ritorno da una delle sue tante battaglie, acquistò il terreno adiacente alla ferrovia Piacenza-Alessandria situato fuori le mura cittadine. Qui vi edificò la sua bella abitazione e la leggenda vuole che siccome aveva nostalgia dell’Africa si volle contornare di alcuni elementi che gli ricordassero quel paese, così costruì alcune capanne simili a tucul e diede il nome di Tobruk a questo piccolo agglomerato in onore dell’omonima città Libica. Chiunque avesse avuto bisogno di una modesta abitazione, il tenente Pietro Marchini affittava a prezzi veramente bassi una di queste sue costruzioni, un pezzo della sua personale Africa. Quando poi decise di diventare imprenditore, ai propri operai che intendevano stabilirsi nel quartiere, Marchini forniva il terreno i materiali e la mano d’opera necessaria per la costruzione della casetta”.
«Oggi invece la condizione di Tobruk non è più tollerabile», aggiunge Laura Tessali, portavoce del comitato della frazione. «Via Trebbia, la strada principale di Borgotrebbia, è un incubo. I parcheggi selvaggi costringono i pedoni a camminare in mezzo alla carreggiata. Pochi anni fa è stata tragicamente investita una signora, non deve più capitare. Stiamo ancora aspettando i dissuasori di velocità». Il gruppo civico ha un sogno nel cassetto: «Vorremmo una piazzetta nel campo di proprietà comunale in via Trebbia, mantenendo il prato e aggiungendo i lampioni, le panchine e un vialetto autobloccante. Presenteremo il progetto alla nuova Giunta».
Il tempo scorre, ma i simboli restano. Se prima gli extraterrestri erano quelle creature con cui provava a dialogare al Tinu al matt (cui è stata dedicata una targa commemorativa a Camposanto Vecchio), adesso è altrettanto facile intravedere gli alieni al bar, ai giardini, sui marciapiedi o in tabaccheria: in quei luoghi dove si sta affievolendo un prezioso senso di comunità. «Se ci fosse lo stesso spirito collaborativo d’allora, non ci sarebbero questi innumerevoli furti», fanno notare le residenti Antonella Zordan e Alice Rusca. «I vicini controllavano gli appartamenti altrui, nessun movimento sospetto rimaneva inosservato. Ora si guarda solo al proprio orticello».
Thomas Trenchi