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Giacomo Bandini, il post-romantico che incendia (di eventi) Fiorenzuola
Intervistarlo è stato più difficile che strappare una dichiarazione a Papa Francesco. D’altronde il santo padre ci ha abituato a chiamare chiunque o intervenire su qualsiasi tema.
Ma non perché se la tiri, ma visto che il “papà” del Why Not, del Kill Beer e tanti altri “bambini” musicali nati negli ultimi anni a Fiorenzuola – anche grazie al “ventre” del Collettivo 14 – ha un problema: è estremamente timido.
Chi lo conosce rimarrà stupito, eppure Giacomo Bandini quando deve parlare di se stesso si chiude a riccio e cerca di sfuggire. «Mi pesa molto apparire, anche se spesso sono costretto. È proprio una cosa che mi fa star male essere al centro dell’attenzione», confessa prima della chiacchierata.
Tra l’altro ci sarà grato di aver riportato i suoi timori. Cerchiamo solo di aiutarlo a esorcizzarle.
Nonostante tutto ci siamo riusciti, chissà come. Forse perché, alla fin dei conti, l’attività che porta avanti con il Collettivo è così importante per lui che sarebbe disposto a tutto pur di promuoverla. Come un vero post-romantico: sentimentale ma in fondo anche molto pragmatico.
Chi è Giacomo Bandini? Prova a definirti.
«Autodefinirsi non è facile, ma se devo proprio direi un post-romantico fuori tempo e fuori moda, con poco talento ma tanto cuore».
E il Collettivo 14?
«È tante cose: un gruppo di amici, una scuola, un progetto, un messaggio, una sfida con noi stessi.
Ai miei occhi una squadra di Supereroi, che combatte le presunte forze del male oltre le proprie possibilità». (ride)
Come siete nati?
«È stato naturale e casuale. Facevamo grigliate tra amici che ogni anno diventavano sempre più grandi. Nel 2013 qualcuno ha proposto di organizzare una festa della birra, così abbiamo fondato il Collettivo e fatto il nostro primo Kill Beer…che a pensarci adesso era una follia. E sarebbe dovuta finire lì, ma a cascata sono arrivati Why Not, Vecchia Scuola, festa al parco Lucca e quant’altro. È stato un crescendo graduale di cose che inizialmente non avremmo neanche mai immaginato di fare».
Quali obiettivi avete?
«Banalmente divertirci, stare insieme, imparare, costruendo qualcosa che non sia fine a se stesso. Poi fare aggregazione attraverso la musica, dare un’alternativa, rifuggire la normalità e, soprattutto, combattere il provincialismo in tutte le sue forme. Più o meno».
Un sogno nel cassetto?
«Sarebbe bello poter organizzare un grande concerto proprio a Fiorenzuola, tipo quelli a cui ci portavano da bambini negli anni ‘90. Cosa che, senza bandi o fondi regionali, oggi come oggi è impossibile per un’associazione come la nostra. Ma ci stiamo attrezzando in questo senso, e sperare non costa nulla».
Con il il Why Not e il Kill Beer siete ormai una realtà consolidata. Quali sono le differenze e gli elementi che non possono mancare in questi due eventi?
«Kill Beer e Why Not si sviluppano intorno alla musica indipendente live. A un occhio distratto potrebbero sembrare simili, ma c’è una serie di elementi che li differenzia parecchio. A grandi linee Kill Beer è più festa della birra, c’è un Grill Contest (Kill Grill), il Beer Pong, e la carne alla griglia “fatta da noi”. Il Why Not è più festival, investiamo tanto nella line-up, ha un’area Expo, e a occuparsi della cucina sono gli Street Food. Ogni anno in entrambi si cerca di alzare l’asticella, inserendo sempre qualcosa di nuovo e migliorando la scelta artistica».
Con la scuola di Baselica, invece, avete compiuto una operazione d’esempio anche per tanti altri. Spiegaci un po’ il processo che ha portato al risultato attuale.
«La scuola è fondamentale perché attraverso gli eventi live che facciamo ci permette di dare continuità al progetto anche in inverno. Ognuno di questi può essere visto come una sorta di mini crowdfounding, il cui il ricavato viene reinvestito nella scuola stessa, e negli eventi successivi. Sistemarla però è stata davvero dura, quando siamo entrati per la prima volta la scuola era in condizioni pessime. Ci sono voluti 2 anni di lavori, dove per renderla quella che è oggi abbiamo dovuto inventarci carpentieri, imbianchini e manovali. Eravamo in pochissimi all’inizio, e non nascondo che più volte siamo stati vicini a mollare, ma per fortuna abbiam la testa dura».
Qual è il vostro rapporto con Fiorenzuola? Come potrebbe aiutarvi di più?
«Nessuno è profeta in patria, ma buono. La provincia è un terreno ostico, un po’ perché ha un bacino d’utenza ridotto, un po’ perché siamo diffidenti verso le novità… ci mettiamo un po’ a digerirle ma alla lunga le apprezziamo. Esporsi e metterci la faccia in un paese così piccolo, poi, non è sempre facile visto che a volte si viene fraintesi o travisati, ma fa parte del gioco. Beh, Fiorenzuola ci aiuterebbe sostenendoci, magari venendo tutta in massa ai nostri eventi… dopo qualche anno così faremmo i Rolling Stones».
A Fiorenzuola è cambiato il colore politico in Comune. Anche il dialogo o il sostegno a una realtà come la vostra?
«Con l’amministrazione precedente c’era già un buon rapporto, che è anche migliorato con l’attuale, dimostratasi da subito interessata e partecipe al progetto. Il problema però è quello di sempre: purtroppo per questo tipo iniziative mancano i fondi che permetterebbero a noi, come ad altre realtà locali, di crescere come meriterebbero».
Altre realtà che guardi con interesse, a Piacenza o fuori Piacenza?
«Nonostante i tempi durissimi per la musica live, l’offerta piacentina è in crescita grazie a realtà come Tendenze, Bleech Festival, RiverLife, Orzorock, Circolo Bykers, Ladri di Fragole. Tutti progetti interessanti, diversi tra loro, e accumunati dalla stessa passione per la musica e per la propria città. Quello che trovo tanto ammirevole quanto assurdo è che la maggior parte di questi sia costretta ad autofinanziarsi. Se non ci fossero cosa rimarrebbe?».
L’ultimo evento è stato il 31 ottobre per Halloween, o Allouin come l’avete ribattezzato, a Baselica. Com’è andata?
«Allouin per fortuna è andato bene, così come l‘inaugurazione. Onestamente per noi riuscire a portare 200/300 persone in una vecchia scuola in campagna, con pochissimo parcheggio, facendo musica indipendente, è già di per sé un successo. Ogni volta cerchiamo di offrire qualcosa di diverso, dalla musica all’allestimento, dosando gli eventi per non andare a stancare. Credo ce ne sarà uno a dicembre, ma come al solito siamo in ritardo e non abbiamo ancora fatto niente».
Giacomo, se chiudi gli occhi e ti pensi tra qualche anno come ti vedi?
«Se consideri che solo 5 anni fa il Collettivo non esisteva ancora, fare previsioni è impossibile. Ma vivere a contatto con la musica e con le persone è quello che vorrei continuare a fare. E spero di avere sempre questa fortuna».
Gianmarco Aimi