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Emanuela Braghieri, giovane volontaria antimafia: «Sogno di fare il magistrato»

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Le passioni di una ragazza di quindici anni – banalizzando – sono i social network, la discoteca, i vestiti, i trucchi e lo sport. Ma Emanuela Braghieri, studentessa del Liceo Respighi nata nel 2001, ha scelto di staccare un tassello dal puzzle dell’ordinarietà per far posto a un altro interesse atipico: «La lotta alla mafia, attraverso gli strumenti dell’impegno sociale e della libertà». Emanuela – che sogna di diventare un magistrato – è iscritta all’associazione “100×100 in Movimento”, grazie alla quale ha compiuto passi importanti, «dalle presentazioni dei libri agli incontri in Fondazione, dai martedì d’estate alla “Biblioteca di strada” alle udienze del processo Aemilia a Reggio Emilia, il più grande procedimento mai tenutosi al Nord contro una cosca mafiosa. Ogni anno, in più, mi reco nell’amata Palermo per ricordate le vittime delle stragi del ’92».

Qual è stato l’incontro più significativo?

«L’esperienza più emozionante l’ho vissuta senza dubbio quest’anno all’Università di Giurisprudenza, dove ho ascoltato fino a tarda sera le parole di Nino Di Matteo e Salvatore Borsellino, i cui principi tengo nitidi quotidianamente. In quel momento, sono state ripagate tutte le discussioni con i miei genitori sui rischi che comporta la mia scelta. Altre testimonianze che hanno lasciato un segno indelebile sul mio tragitto sono state quelle di Angelo Corbo, un superstite della strage di Capaci, Ignazio Cutrò, un imprenditore che ha avuto il coraggio di opporsi al pizzo, Rosaria Cascio, alunna di Pino Puglisi e ora insegnante, Pino Maniaci, giornalista di Telejato. Ho conosciuto i mondi di tante associazioni, tra cui “Cosa Vostra”, nella quale sono entrata a far parte come redattrice».

Ma da cosa scaturisce questo tuo impegno così forte, vista la tua giovanissima età?

«Quando avevo 13 anni, lessi per puro caso – forse, per noia – un libro consigliato dalla mia professoressa di italiano delle scuole medie. Si trattava di “Per questo mi chiamo Giovanni” di Luigi Garlando. L’opera iniziò a creare in me un vortice di punti interrogativi su una parola frequente tra le righe delle pagine, mai sentita prima: “mafia”. Ricordo perfettamente la sensazione di reale incredulità nel leggere così ripetutamente episodi di violenza, ignoranza, brama di potere e vendetta. Volevo credere che l’uomo fosse altro, ma non potevo: non era e non è così, purtroppo. La tesina di terza media fu un ottimo pretesto per approfondire l’argomento, per analizzare il fenomeno mafioso da ogni punto di vista e constatai a mal in cuore che fu semplicissimo collegare la mafia a ogni materia scolastica. Da qui nasce un percorso, inizialmente didattico e culturale, che ora considero alla base della mia esistenza».

Tra i tuoi coetanei, qual è la percezione della problematica?

«Gli amici mi sostengono in questo progetto, a volte ne discutiamo. La conversazione, però, spesso termina con una mia osservazione. Mi ascoltano, ma forse non credono fino in fondo a ciò che dico. In parte, è colpa del contesto in cui viviamo».

Come concretizzi il valore dell’antimafia?

«Cerco di rimanere assetata di conoscenza. L’indifferenza e l’ignoranza rappresentano il male peggiore. Sono in una fase della vita in cui sto delineando gli aspetti veramente importanti. La legalità deve fare da filo conduttore: non voglio abituarmi, in nessuna forma, all’ingiustizia. Ho notato che, in molti casi, le scorciatoie sbagliate fanno parte della “normalità”… ma cos’è la normalità?».

Il fenomeno mafioso viene preso sottogamba al Nord?

«Una parte di popolazione non sa e continua a vivere nell’illusione che fino a quando non troverà i morti per strada, come al Sud, sarà esagerato parlare di mafia. L’altra parte, ben informata su ciò che avviene, sostiene che il Paese abbia altre priorità, perciò non sarebbe necessario concentrarsi sulla lotta alla mafia, oppure imputa alla politica le colpe della scarsa attenzione al contrasto delle cosche. Ma si dimentica che la politica siamo noi».

Thomas Trenchi

Classe 1998, giornalista professionista dell'emittente televisiva Telelibertà e del sito web Liberta.it. Collaboratore del quotidiano Libertà. Podcaster per Liberta.it con la rubrica di viaggi “Un passo nel mondo” e quella d’attualità “Giù la mascherina” insieme al collega Marcello Pollastri, fruibili anche sulle piattaforme Spreaker e Spotify; altri podcast: “Pandemia - Due anni di Covid” e un focus sull’omicidio di via Degani nella rubrica “Ombre”. In passato, ideatore di Sportello Quotidiano, blog d'approfondimento sull’attualità piacentina. Ha realizzato anche alcuni servizi per il settimanale d'informazione Corriere Padano. Co-fondatore di Gioia Web Radio, la prima emittente liceale a Piacenza. Creatore del documentario amatoriale "Avevamo Paura - Memorie di guerra di Bruna Bongiorni” e co-creatore di "Eravamo come morti - Testimonianza di Enrico Malacalza, internato nel lager di Stutthof". Co-autore di “#Torre Sindaco - Storia dell’uomo che promise un vulcano a Piacenza” (Papero Editore, 2017) e autore di "La Pellegrina - Storie dalla casa accoglienza Don Venturini" (Papero Editore, 2018). Nel maggio del 2022, insieme ai colleghi Marcello Pollastri e Andrea Pasquali, ha curato il libro-reportage "Ucraina, la catena che ci unisce", dopo alcuni giorni trascorsi nelle zone di guerra ed emergenza umanitaria. Il volume è stato pubblicato da Editoriale Libertà con il quotidiano in edicola. Ecco alcuni speciali tv curati per Telelibertà: "I piacentini di Londra" per raccontare il fenomeno dell'emigrazione dei piacentini in Inghilterra nel secondo dopoguerra, con immagini, testi e interviste in occasione della festa della comunità piacentina nella capitale britannica dal 17 al 19 maggio 2019; “I presepi piacentini nel Natale del Covid”; “La vita oltre il Covid” con interviste a due piacentini guariti dall’infezione da Coronavirus dopo dure ed estenuanti settimane di ricovero in ospedale; il reportage “La scuola finlandese” negli istituti di Kauttua ed Eura in Finlandia.