politica
Il sole non batte a Bosco Tosca. La guerra di vicinato tra residenti e nomadi
Solo parafrasando il titolo del libro di Anna Maria Ortese “Il mare non bagna Napoli” è forse possibile trovare una chiave di lettura per quel che sta accadendo nella frazione piacentina di Bosco Tosca. E probabilmente in chissà quante altre in Italia. Un pugno di case e un centinaio di abitanti, a meno di quattro chilometri da Castel San Giovanni, fra le quali l’ormai abusata definizione di “guerra fra poveri” appare quantomai lampante. Non è questione di conto in banca, ma di persone che appaiono sole nella risoluzione di controversie per le quali sarebbe necessario l’intervento delle istituzioni.
Da anni sugli organi di stampa si legge di una comunità nomade che avrebbe gettato la zona nell’insicurezza. Per questo abbiamo deciso di andare a vedere di persona. Al nostro arrivo, invece di un campo rom ci troviamo di fronte a un ex pollaio riconvertito in casetta, nel quale risiede da circa un anno una famiglia con nove figli, i quali parlano alla perfezione il dialetto gitano. Le condizioni igieniche sono scarse, inadatte ad accogliere dei bambini. Il capofamiglia – ornato da un inconfondibile dente d’oro – è agli arresti domiciliari per furto, ma accetta comunque di parlare e con fare diplomatico ci invita all’interno.
«Prima abitavamo in affitto a Milano. Non siamo abusivi, per questa proprietà abbiamo speso i risparmi di quarant’anni di vita. Abbiamo il riscaldamento e la luce viene alimentata a gas. A Bosco Tosca non siamo stati ben accolti. Non siamo come gli stranieri che, pur non facendo nulla, vengono aiutati dalle istituzioni», si sfoga l’uomo, disponibile a sfoderare carte e documenti come prova di regolarità. «Mia moglie svuota le cantine e vende merce nei mercatini dell’usato. I nostri piccoli sono malvisti a causa delle diffamazioni dei vicini. Non siamo mai stati coinvolti nelle riunioni di quartiere: siamo esseri umani e abbiamo il diritto a esprimere un’opinione».
È mattina e alcuni bambini non sono a scuola. «Non passa più il pulmino», si è affrettata a lamentare la madre, «perché ci hanno tolto il sussidio e non possiamo pagarlo. Almeno usufruiamo dell’esenzione per la mensa scolastica». Benché molto piccoli, scorrazzano fra il cortile pieno di ceppi di legna che finiranno nella stufa, in mezzo ai due camper posteggiati («e autorizzati dal Comune») segno distintivo di ogni gruppo nomade, schivando i sacchi dell’immondizia abbandonati a cielo aperto, ai bordi dell’argine sul quale scorre l’unica strada per raggiungere qualsiasi cosa. A Bosco Tosca, infatti, non c’è nulla: bar, farmacia, negozi sono un miraggio. Niente di niente.
Alla guida della famiglia rom c’è una coppia di origine bosniaca che assicura d’aver acquistato legalmente l’abitazione e il terreno circostante (perlopiù uno spiazzo di ghiaia) e che, visti i cattivi rapporti con il vicinato, sono decisi a vendere per andarsene altrove. Come mai tanti problemi? «Ci fanno offerte per l’abitazione ma troppo basse. Vogliono solo mandarci via e senza pagare il dovuto». È questa in sintesi la loro versione.
A pochi passi dalle villette a schiera, abitano quei piacentini che in una generazione precedente avevano scommesso su questa frazione come buen retiro dopo anni di lavoro e affanni. E invece della tanto agognata casa in campagna si sono ritrovati in un posto dove alle sette di sera si sentono costretti a barricarsi nelle proprie quattro mura. «I rom fanno chiasso, si raggruppano nel piazzale con la musica a tutto volume e accendono fuochi illegali. Abbiamo assistito anche a risse. È una latrina, disturbano tutto il giorno», denunciano esasperati alcuni dei residenti, totalmente sfiduciati nei confronti dei partiti. Inoltre ammettono: «Siamo pronti a comprare il terreno, ma non alla cifra che chiedono, tripla rispetto al valore reale». Una signora che sta togliendo le foglie dal marciapiede preferisce non commentare il quadro: volta le spalle e se ne va spaventata.
Naturalmente i nomadi smentiscono i disagi, così come i furti che negli ultimi anni sarebbero aumentati nella zona. «Siamo stati noi a cacciare gli zingari che non si comportavano bene. Perché adesso non possiamo vivere in pace?», hanno ripetuto più volte.
Dietro le villette si snoda un piccolo borgo. È qui che in passato si era insediata una comunità rom particolarmente turbolenta, a detta di molti. Ma che ora pare essersi trasferita, lasciando qualche maceria alle proprie spalle. Qui abita la figlia maggiore del nucleo gitano. È la stessa madre che ci accompagna nella sua via, per dimostrare l’integrazione della loro famiglia. All’esterno della casupola, nella strada minuscola, un altro camper posteggiato. «Vedete? Qui tutto è a posto», dice la donna. In quel momento si apre una porta e sgattaiolano fuori un paio di bambini, che devono soffrire anch’essi dell’assenza del pulmino. Poi arriva la ragazza, che saluta di sfuggita e torna all’interno. «È agli arresti domiciliari, ma per piccoli furti», dice la madre, mentre ci riaccompagna sui nostri passi. Alle case prima occupate dai nomadi “cacciati” sono state murate porte e finestre e recano i segni di un incendio. Le altre sono sobrie ma protette da doppia mandata.
Il panorama è melanconico. Bosco Tosca è sigillata in una capsula di malessere che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Si fatica a pensarla ridente persino d’estate. È così che, dopo aver cercato di raccogliere le testimonianze delle due parti in causa, sembra evidente mancare qualcosa. Le istituzioni, la politica, la legge, un po’ di buonsenso. Magari tutti questi elementi insieme, la cui assenza non permette a questa minuscola frazione di Castel San Giovanni di potersi sentire parte di una comunità, dell’Italia, dell’Europa. E la condanna a rimanere un microscopico aggregato di case senza coesione sociale nel quale il sole, anche quando batte, non riesce mai a scaldare il cuore dei suoi abitanti.
Gianmarco Aimi e Thomas Trenchi