cultura
La cantante futurista Ana Spasic: «A Piacenza poco spazio per l’arte contemporanea»
È pazzesco constatare che la voce dirompente di Ana Spasic rimanga circoscritta in un pubblico di nicchia. D’altronde, le avanguardie musicali sono vincolate entro confini ristretti e difficili da squarciare. Nata nell’ex Jugoslavia poco prima della morte del maresciallo Tito, da quasi un quinto di secolo vive a Piacenza. E non vorrebbe essere altrove. «Questa città, utilizzando una parola slava, è il mio dom. È la mia dimora. Viaggio costantemente per cantare, per studiare e per vedere i parenti in Serbia, ma quando torno a Piacenza mi sento veramente rilassata e concentrata», racconta la cantate soprano.
Si potrebbe ritrarre Ana Spasic come una “scienziata del suono” che sperimenta nuove tecniche direttamente sulle sue corde vocali. Viene ingaggiata per esibirsi in tutta la Penisola. E non solo: è stata chiamata in Francia, Irlanda, Germania, Grecia, Romania, Israele, Usa, ricevendo apprezzamenti di critici ed esperti di rilievo internazionale. «Mi dedico a tanti esercizi che sono necessari nella cosiddetta “musica colta”, non di puro intrattenimento. Poi, una volta pronta e con il progetto artistico in pugno, mi esprimo in altre località».
La sua ultima fatica è il cd “Futurvoice” pubblicato nel 2017 dalla casa discografica toscana Ema Vinci Records. «Ho creato delle scritture vocali nelle quali interpreto le poesie di undici autori del futurismo italiano, tra i quali anche il piacentino BOT», chiarisce la Spasic. Definisce la sua opera un “CD oggetto”, «che non tiene conto dell’ordine cronologico, ma di un criterio di ricchezza e di discontinuità stilistica nell’impatto sonoro e visivo. Ho evidenziato i punti focali dei futuristi italiani di allora, facendo risuonare tutto il mio corpo e restituendo il passato in piena libertà, senza emulazioni». La storica dell’arte Francesca Barbi Marinetti (nipote di Tommaso Marinetti, fondatore del Futurismo) ritiene questo prodotto una «spettacolarizzazione della voce» e una «mappatura sonora che permette di ripercorrere alcuni momenti salienti della sperimentazione parolibera futurista».
Nel nostro territorio non ha trovato palcoscenici importanti. «Sinceramente non ne faccio un dramma: forse, col tempo, le competenze comuni dei cittadini accresceranno e si apriranno più spazi per l’arte contemporanea nelle città meno grandi», confida Ana Spasic. «Piacenza sa essere molto contraddittoria e sorprendente. Ho conosciuto anche intellettuali e artisti ricettivi e in gamba. Occorrerebbe riunire le competenze e le forze, in una sabornost serbocroata – letteralmente significa “lottare insieme” – che potrebbe essere tradotta con la parola comunione. In Italia invece spesso accade che l’individualità regni sovrana, disgregando le azioni di gruppo. Nella nostra provincia esistono risorse e persone attive nell’ambito dell’arte contemporanea. Il passo in avanti consisterebbe nel costruire più luoghi in cui esercitarla e mostrarla».
La carriera della Spasic, costellata da aspetti curiosi e incredibili, sembra confermare che il destino non tira mai indietro la mano. «Nel 2001, con enorme fatica, emigrai dal mio Paese, martoriato dalle guerre e bloccato dagli embarghi e dai limiti di visto. Desideravo iscrivermi a un esame d’ammissione nel Conservatorio Nicolini di Piacenza, una delle principali istituzioni che allevano la tradizione verdiana. Venni scelta tra un centinaio di persone. Durante le prime lezioni, però, la professoressa di canto, lei stessa una voce verdiana per antonomasia, mi confessò di vedere in me una dote ulteriore. Avrei dovuto accantonare Giuseppe Verdi e tutti gli autori operistici italiani. Mi fidai e accettai di essere instradata. Stando alle sue parole, la mia voce si addiceva a un periodo tra il XX e l’XXI secolo. Assomigliavo a una virtuosa del Novecento italiano, Liliana Poli, con la quale ebbi la fortuna di studiare più tardi». Ana Spasic dunque era una sorta di pecora nera in un ambiente tipicamente accademico, maldisposto nei confronti delle forme moderne dell’espressione musicale. Paradossalmente, si avvicinò alla musica futurista – nata in reazione agli insegnamenti tradizionalisti – grazie alle dritte di una docente del Conservatorio. Convivendo con lo stravolgimento delle sue aspettative, divenne una solista del «mondo contemporaneo colto, su sentieri astratti e selvaggi».
Per farmi comprendere il suo stile, sfodera il video di un’esecuzione realizzata a Malta. Ana Spasic pare una musa greca alimentata da una forza ultraterrena. Affianco a lei, un pianista esegue contemporaneamente un altro pezzo. Compare una frase in francese di Erik Satie: L’artiste n’a pas le droit de disposer inutilement du temps de son auditeur/L’artista non ha il diritto di far perdere tempo al suo pubblico. Ricorda con piacere i concerti nella stagione del Maggio musicale fiorentino, nel campus americano di Baltimora, nel festival di Hartford e nel museo Pecci di Milano. «Oltre al canto, devo lavorare sulle componenti attoriali, facciali e danzanti. Si pretende una capacità di immaginazione e di creatività che normalmente in un cantante di tradizione colta non viene contemplata», aggiunge la soprano, innamorata del percorso che sta seguendo. Il 9 marzo 2018 si esibirà a Roma al teatro Palladium nell’Opera contemporanea Novatrix sulle metamorfosi di Ovidio, firmata dal compositore Daniele Lombardi.
Thomas Trenchi