Cucina
Prima vietata e poi osannata: l’epopea della carne di cavallo

Chi mangerebbe carne di castoro? Domanda adatta per gli studiosi di storia medievale; infatti nell’ottavo secolo d.C. due Papi, Gregorio III e Zaccaria I, ne vietarono il consumo insieme a un’altra tipologia, a noi piacentini sicuramente più familiare: quella di cavallo. Non furono certo i primi a considerarla sgradita, già il Levitico non la vedeva commestibile: gli equini erano animali da lavoro non ruminanti e lo zoccolo è sempre stato intero, categorizzazione che li salvò quindi anche tra gli ebrei osservanti. Ma le classi povere si facevano beffa dei divieti, avendo a che fare con la forza molto più potente della fame, e le frequenti guerre rendevano tutti più propensi a fare poche storie sul tipo di carne disponibile.
Il macello di vicolo Mazzeria San Giorgio ne macellava in buona quantità e lo strategico posizionamento vicino all’antico mercato di Piazza Borgo ne rendeva rapida la vendita, potenzialità non indifferente considerando la scarsa conservazione dovuta al maggiore quantitativo di zuccheri. Quando la macellazione si spostò al serraglio Sant’Ilario prima e all’ammazzatoio del Carmine poi, il consumo continuava a essere consueto ma illegale. Nel giugno 1799, dopo il durissimo scontro tra truppe francesi e austriache sulle rive del Po, morirono migliaia di cavalli: manna dal cielo per la città assediata e predata di ogni genere carneo.
L’Ottocento fu determinante per la regolamentazione e la nascita delle ricette che la tradizione piacentina ha tramandato fino ad oggi. I responsabili erano sempre i francesi, che Napoleone insediò in città con un reggimento di cavalleria. La carne di cavallo divenne finalmente legale, grazie al regolamento del Regno del Piemonte per la macellazione e la vendita del 29 agosto 1863, classificata in quarta classe tra le derrate scadenti. Definizione strana per un prodotto spesso decantato per le sue qualità, come la ricchezza in ferro e zuccheri che la rende facilmente digeribile e l’assenza di grassi, ma adeguata se considerato il contesto: gli animali macellati erano solamente quelli vecchi, di cui il muscolo impoverito e fibroso era scarsamente accettato, anche per il sapore dolciastro. Il contesto militare portò alla nascita della Picula, nome ispirato alla piccola dimensione della gavetta dei soldati, un connubio tra la carne equina tritata e la peperonata, a Piacenza denominata Rustisana.
Tornarono in voga anche le antiche usanze dei tartari, che vivendo nella immensa steppa orientale erano abituati a fare di necessità virtù. Da questo popolo nomade, molto abile nell’uso del cavallo per ogni necessità, si riprese una tecnica di preparazione adatta agli animali morti in battaglia: i pezzi crudi di carne tagliata tra la groppa e la sella venivano consumati in serata, ridotti in poltiglia dopo un giorno di galoppo. Ecco spiegata la denominazione “tartara”, consumata attualmente con olio, sale e altri ingredienti a piacere.
Nel 1866, venne approvata l’apertura di un macello ippico a sé stante e l’apertura di botteghe specifiche. La prima aprì nel 1873, in vicolo San Francesco e nel 1885 diventarono ben ventitré gli esercizi dedicati a questo animale. Nello stesso periodo smise di avere fondamenta la concezione del cavallo come cibo popolare e surrogato temporaneo, grazie ad una cena a base di equino organizzata al Grand Hotel di Parigi alla quale parteciparono grandi letterati (Flaubert, Dumas padre ed Edmond De Goncourt).
Nel Novecento, nonostante le due guerre mondiali, la presenza di cavalli in città diminuì. Per merito della grande innovazione bellica, la macellazione non fu più deputata solo ai capi feriti o inutilizzabili. L’allevamento per uso alimentare cominciò a svilupparsi. La carne di cavallo era adattissima per bambini, anziani, malati e il consumo crebbe di parecchio, tanto che un dato del 1952 posizionava Piacenza al nono posto per consumo nazionale.
Nel ventunesimo secolo il consumo è tornato ad abbassarsi, a causa della scarsa presenza nei supermercati e la sopravvivenza di poche botteghe specializzate. Il dato è sicuramente imputabile a un minor interesse da parte del consumatore, con il rischio d’assistere all’oblio ingiustificato dei prodotti equini. Il cavallo è uno dei rari i cibi animali che rientrano nei trend dell’alimentazione salutistica. La scarsa diffusione a livello nazione potrebbe essere un ottimo stimolo per valorizzare la tradizione piacentina dal punto di vista del turismo gastronomico. Agli animalisti eventualmente scandalizzati da tale presa di posizione, è bene ricordare che il rispetto verso le specie dovrebbe essere un processo democratico, e non rivolto solo alla cerchia ristretta degli animali “belli da pensare”.
Davide Reggi
