Cucina
Il riso nella cucina piacentina: dai Farnese agli Scotti, una “bomba” di storia
Il 23 dicembre 1855, il cuoco Luigi Naldi della casata di Vigoleno annotò nel menù per la prima volta la fantomatica bomba di riso. Questo piatto, nato probabilmente dall’inventiva dello chef di corte per i suoi ricchi commensali, era caratterizzato da una forma semisferica a palla di cannone.
Quanto il popolo piacentino è legato al riso? Tanto, sebbene non sia un prodotto che potremmo definire originario della nostra provincia. Nel bene, come vi mostrerò nel corso dell’articolo, ma purtroppo anche nel male. Era l’autunno del 1956 quando un camion contenente dodici “tagliariso” cadde dalla strada e rotolò nel fiume Trebbia, in località Buffalora. Per gli sfortunati, diretti a Vercelli per la campagna del riso, non ci fu nulla da fare. Nel bobbiese il loro ricordo è ancora vivo.
La coltivazione del riso, sia a Piacenza che nell’Italia intera, non è così antica. Furono gli Aragonesi a portarne il consumo nella Penisola, a partire dal quindicesimo secolo. Presto il cereale si diffuse nella zona di Vercelli, che divenne la capitale d’Europa per questo prodotto, ma anche in Lombardia da cui il salto al nostro ducato risulterà breve. Il divieto protezionistico emanato da Pierluigi Farnese il 13 gennaio del 1546, in cui ne vietava l’importazione dal lodigiano, fu tra i primi documenti a citare il riso. Il divieto venne riconfermato quattro anni dopo, permettendo di stimare il consumo dell’epoca: scarso e destinato forse solamente alle classi più abbienti. I limiti, però, durarono poco: nel 1578, nacquero le prime coltivazioni nostrane nelle zone di Rivalta e Casaliggio, dove si cominciò a produrre anche la semenza per i piccioni. Ebbene sì, i piccioni ora tanto odiati un tempo erano allevati…
Il riso col piccione, un “must” sulle tavole piacentine del passato
Durante la peste, attorno al 1630, nelle ispezioni delle scorte cittadine il riso era al quarto posto per abbondanza. È singolare l’aneddoto in cui una nave carica di cereali sul Po e diretta verso la zona di Ferrara, fermata al porto fluviale di Piacenza per i controllo di routine, venne requisita e scaricata dell’intero carico per sfamare il popolo piacentino. Superata la peste, i mercanti di riso erano sette. Nel 1830, l’aumento della produzione permesso dalla meccanizzazione agricola e la liberalizzazione del mercato portarono il numero di venditori a dodici. Nella reggenza della famiglia Farnese e sotto il dominio borbonico aveva assunto grande importanza la famiglia nobiliare Scotti. Sui loro banchetti era immancabile il riso: il sartù, cioè una pietanza pasticciata con ragù e verdure tipici di Napoli, riso e fagioli, oppure riso e “corada” con polmone di vitello o manzo, tagliato sottile e cotto lentamente. Era diffuso anche il riso con i fegatini e “magoncini” di piccione. Questi volatili venivano allevati in una struttura in muratura sui tetti delle case o sopra i forni a legna, la piccionaia per l’appunto, e alimentati con semi di cereali e vinacce per assicurare una gradita scorta di carne tutto l’anno. Fino agli anni Cinquanta molti piacentini non ne hanno fatto a meno. Persino il collegio Alberoni possedeva un proprio allevamento.
Il 23 dicembre 1855, il cuoco Luigi Naldi della casata di Vigoleno annotò nel menù per la prima volta la fantomatica bomba di riso. Questo piatto, nato probabilmente dall’inventiva dello chef di corte per i suoi ricchi commensali, era caratterizzato da una forma semisferica a palla di cannone, con una una cupola di riso lessato contenente un cuore di carne di piccione, talvolta arricchito con altri ingredienti come i funghi. La cottura avveniva in forno e, per creare una crosta croccante, l’esterno viene cosparso di pangrattato e burro. Inizialmente, la bomba di riso veniva proposto per le festività natalizie e per la Madonna di Agosto, ricorrenza in cui il popolo credeva che le carni fossero più tenere e succose. Adesso la carne di piccione è tornata a un uso prettamente di nicchia. Il ripieno è stato sostituito con salsiccia e fegatini di pollo, ma i migliori ristoranti della nostra zona seguono ancora la ricetta originale.
Impossibile non citare un ultimo piatto a base di riso della cucina piacentina. Si tratta del risotto con verza e maiale, di origine assolutamente popolare. Era preparato al momento dell’uccisione del maiale e – all’insegna del proverbio “del maiale non si butta via niente” – per produrre il minor scarto possibile era aggiunto al riso in brodo con verza, un vegetale invernale, povero e tipico della nostra provincia. La pietanza veniva costellata di costine, scaldando animo e corpo della classe contadina. Un po’ come oggi, se imbandito degnamente.
Davide Reggi