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Cucina

Grana padano, il formaggio che rende orgogliosa Piacenza dall’anno Mille

Piacenza è una bolla a sé stante, o almeno – forse – vorrebbe esserla. In un aspetto, certamente, ci riesce: il Grana Padano, lo storico formaggio di cui la nostra provincia è l’unica produttrice emiliana.

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Solo i confini segnati dal fiume Po, trattengono Piacenza in Emilia-Romagna, distinguendola dalla Lombardia. Difficile definire la nostra appartenenza: ci sentiamo lontani sia dai lodigiani che dai cremonesi, e anche Parma non ci va proprio a genio.

Piacenza è una bolla a sé stante, o almeno – forse – vorrebbe esserla. In un aspetto, certamente, ci riesce: il Grana Padano, lo storico formaggio di cui la nostra provincia è l’unica produttrice emiliana.

Le prime notizie risalgono all’anno Mille: presso l’abbazia di Chiaravalle (non quella vicino ad Alseno, ma quella nei pressi di Milano) i monaci cistercensi bonificarono i terreni che il Po, sprovvisto di argini, puntualmente inondava. Ciò permise il recupero di terreni con una fertilità immensa, adatti sia allo sviluppo agricolo sia all’allevamento: le basi erano quindi state fondate e iniziò la produzione di formaggio.

La diffusione scese per tutta la valle del Po, da Lodi e Codogno, passando a Piacenza e proseguendo fino a Parma. Il grana, così chiamato per la consistenza della sua pasta, cominciò a prendere il nome dalle città di provenienza. Nel 1477, Pantaleone da Confienza citò il Grana Padano nel suo trattato “Summa Lacticinorium”, un importante documento che dedica ai latticini un intero capitolo; in esso l’autore elogiò la zona come perfetta per il pascolo dei bovini e definì i formaggi piacentini superiori in qualità rispetto a tutti gli altri.

Il secolo successivo fu quello di massimo splendore per l’ormai famoso “Piacentino”. Ortensio Lando, uno dei primi gastronomi italiani, transitò varie volte in città tra il 1544 e il 1545, annoverando il “cacio piacentino” accompagnato da scaglie di frutta tra i suoi ottimi ricordi culinari. Ne rimase tanto soddisfatto da paragonarlo a un pasto a base di fagiano (una delle carni più pregiate per il tempo).

Nello stesso periodo, nel Vaticano – scosso dalla devastazione del Sacco di Roma e dai dissidi con il nascente protestantesimo – viveva il nostro concittadino Giulio Landi, il quale ebbe la “pazza” idea di dedicare un’ode ai prodotti del territorio piacentino. “La formaggiata di sere stentato” non sarebbe così rilevante in realtà, il suo giudizio è sicuramente parziale, se non fosse che comunque si notano caratteristiche del Grana rimaste costanti nel tempo: la struttura della pasta, il miglioramento con l’invecchiamento, il richiamo al bicchiere di vino. Ma la vera “bomba” fu un’altra: la leggenda vuole che Papa Leone X avesse provato a corrompere invano Lutero e i suoi protettori per far tornare la chiesa unita, con cento forme di “piacentino” che tuttavia il monaco tedesco non accettò.

Nel diciannovesimo secolo, Piacenza rischiò di perdere una parte importantissima del suo patrimonio gastronomico. Le logiche di mercato imposero un rallentamento alla produzione casearia. Il burro era diventato maggiormente prezioso e la stagionatura dei formaggi quasi antieconomica, tanto da far puntare i casari piacentini su burro e formaggi freschi, come lo stracchino e il mascarpone. Scelta contraria rispetto a Parma e Reggio, che proprio in quel periodo crearono la base per la loro fortuna futura. Nel 1934 nacque il consorzio di tutela del Parmigiano Reggiano e la nostra città – scarsa produttrice del formaggio a grana che l’aveva resa famosa in passato – ne rimase esclusa. Non fu subito chiara l’entità dell’occasione che si era persa, ma la storia diede una seconda possibilità a Piacenza: nel 1957, quasi trent’anni dopo, fu istituito il consorzio del Grana Padano. Questa volta, Piacenza vi aderì.

Attualmente è una delle più grosse produttrici di Grana Padano, con una certificazione DOP conferita nel 1996. Il lisozima è l’unico conservante presente nel Grana, a differenza del formaggio centro-emiliano che invece non ne ha. Come è possibile? La spiegazione sta nell’alimentazione delle vacche padane, che a differenza delle loro cugine possono mangiare anche insilati (semplice erba seccata e conservata in silos) oltre a fieno ed erba fresca. La conservazione in questi enormi contenitori in cui c’è assenza di ossigeno può portare a fermentazione, che a sua volta può sviluppare il Clostridium Botulinum, un batterio dannoso per la salute umana. Per scongiurarne la presenza, nelle forme si aggiunge il lisozima, che però è tutt’altro che una porcheria chimica: si tratta infatti di una semplicissima proteina dell’uovo.

Davide Reggi

Classe 1995, da amante folle di cibo e vino si laurea in Scienze Gastronomiche a Parma, dove inizia a coniugare la passione con la scrittura. Ama il silenzio ma anche chi sa parlare, tanto da avere l'ipod pieno di monologhi; venera Marco Paolini, Roberto Bolano e chiunque si esprima con un po' di intelligente leggerezza.