testimonianze
«250 chilometri emozionanti». Domenico Sannino racconta il “suo” Cammino di Santiago
Il “cammino di Santiago” sembra donare a chi lo compie una gioia contagiosa e un desiderio irrefrenabile di condividerla con gli altri. Ecco la testimonianza di Domenico Sannino, 46enne di origine campana, conosciuto nel piacentino come attore teatrale.
Trovare le parole giuste per descrivere un’esperienza non è facile. Dar voce a sensazioni e sentimenti che ci hanno colpito fortemente ancora meno. Il “cammino di Santiago” però sembra donare a chi lo compie una gioia contagiosa e un desiderio irrefrenabile di condividerla con gli altri, anche attraverso il racconto e la testimonianza. Non è sfuggito a questa prassi neanche Domenico Sannino, 46enne di origine campana, conosciuto nel piacentino come attore teatrale, che dopo averne coltivato per lungo tempo il desiderio ha deciso finalmente di mettersi in cammino.
«A causa dei pochi giorni a mia disposizione ho optato per il “Cammino inglese”, tratto meno conosciuto che collega la città di Ferrol a Santiago di Compostela, percorrendo la Galizia da nord a sud per circa 120 chilometri. E’ chiamato così perché intrapreso, fin dal Medioevo, dai pellegrini diretti alla tomba dell’apostolo Giacomo il Maggiore, che giungevano via mare dalla penisola scandinava e dalla Gran Bretagna. In totale, ho camminato per circa 250 chilometri fino a Finisterre. Mi rendo conto che questa distanza può essere considerata una sciocchezza da quei pellegrini che percorrono il più famoso “Cammino francese” di 800 chilometri, ma nei giorni passati a camminare ho capito che non conta tanto la distanza in sé quanto l’intensità emotiva con cui la si percorre».
Quando sei partito, Domenico?
«Il viaggio è iniziato il 28 aprile ed è terminato il 10 maggio. La curiosità, nata ascoltando i racconti di altri pellegrini, è stata il motore che mi ha convinto a partire, ma andando avanti lungo il percorso qualcosa di più forte e spirituale si è fatto strada in me. Non si trattava del primo viaggio “zaino in spalla” che ho intrapreso, e di solito in giro per il mondo non vado mai a caccia di comodità quando è a scapito di autenticità. Tuttavia, questa volta è avvenuto qualcosa di diverso sin dal decollo all’aeroporto di Orio al Serio. Tutti i passeggeri chiacchieravano tra loro senza conoscersi, continuando a scambiarsi pareri sugli itinerari passati o ansie e timori di chi stava per esordire».
Com’erano organizzate le giornate?
«Mi svegliavo intorno alle 6, facevo colazione e iniziavo a camminare per circa 7 o 8 ore con lo zaino sulle spalle senza badare al freddo e alla pioggia che mi hanno accompagnato per diverse tappe. La vera difficoltà è stata la convivenza col peso di otto chili dello zaino sulle spalle. In queste occasioni ti accorgi veramente che basta l’essenziale: tre maglie, tre mutande e tre paia di calze, due pantaloni, prodotti per l’igiene intima, mantella impermeabile e sandali, di vitale importanza per i propri piedi dopo trenta chilometri trascorsi nell’umidità delle scarpe. E guai a dimenticare le spille da balia».
A cosa servivano le spille?
«Mi sono state consigliate da un pellegrino prima di partire. Servivano per appendere i vestiti al proprio zaino nel caso non si fossero asciugati il giorno prima».
Come è stato l’arrivo a Santiago?
«Difficile da descrivere. È una gioia arrivare in quella piazza: ha rappresentato il raggiungimento della meta, ma allo stesso tempo la fine malinconica del percorso. Il momento più importante resta la messa del Pellegrino che si celebra tutti i giorni a mezzogiorno in un’atmosfera unica, con un senso autentico di pace e libertà che libera i sentimenti e, perché no, anche le lacrime. È davvero qualcosa in più di una semplice funzione religiosa».
Da Santiago hai continuato in direzione Finisterre per altri 120 chilometri.
«Sì, capo Finisterre è la punta più occidentale d’Europa. Questo tratto è percorso da molti pellegrini provenienti da diversi cammini e ha come punto d’arrivo l’oceano. Per motivi personali, questo era un luogo pieno di fascino, ancor prima di partire. Ma mai avrei immaginato di quali emozioni sarebbe diventato scenario una volta giunto fin lì. Al famoso chilometro 0.00 che indica la fine del cammino, appena prima del faro che domina quel promontorio in mezzo all’infinito, una grande scritta ci ha avvisato che quello è il luogo “donde el silencio esconde algo más que palabras”, dove il silenzio cela qualcosa in più delle parole. Non tutti prendono seriamente questa frase, ma io quasi inconsciamente l’ho fatta mia e ho iniziato ad avanzare tacito e commosso. Mi sono seduto sulla scogliera e, insieme al mio amico, ho deciso di rispettare la tradizione che porta ogni pellegrino a bruciare un indumento che lo ha accompagnato durante il percorso. Mentre osservavamo l’agitarsi della fiamma, una signora tedesca ci ha chiesto con un filo di voce, in ottimo inglese, se avevamo piacere di condividere il fuoco con lei. Ha estratto dal suo zaino un berretto e l’ha appoggiato con delicatezza sulle ceneri dei nostri vestiti. Ci siamo ritrovati a piangere tutti e tre, senza bisogno di dirci nulla, senza necessità di indagare con la ragione un’emozione tanto intensa e concreta. Solo una volta spente le fiamme, la signora ci ha raccontato che quel cappello lo indossava sua figlia durante le sedute di chemioterapia affrontate per sconfiggere un brutto tumore. Questo è stato l’ultimo regalo che il cammino mi ha offerto: la libertà e soprattutto la serenità di aprirsi con un estraneo e sentirsi subito uniti, in qualcosa che va ben aldilà di noi stessi, della logica e dei meri interessi».
Ci sono stati anche degli ostacoli?
«Certo. La prima vera difficoltà è quella di capire il cammino. Bisogna lasciarsi trasportare senza farsi influenzare troppo dalle opinioni e dalle esperienze altrui. Inutile negare che anche fisicamente non è esattamente una “passeggiata”. Dopo qualche giorno però, ti accorgi di quanto la testa possa dare un grande aiuto al corpo. Una mattina, ad esempio, non riuscivo a far entrare il piede nella scarpa tanto era gonfio. Con l’aiuto del solito compagno di viaggio, che a modo suo – lapidario e brusco – è riuscito a spronarmi, ho iniziato la tappa e per non pensare al dolore ho iniziato a canticchiare per tutto il tempo il testo di una vecchia canzone di Claudio Baglioni, “Avrai”, sforzandomi di recuperare dalla memoria le parole esatte. Devo dire che la frase “camminerai dimenticando” sembrava scritta per me e mi commuoveva sempre di più ogni volta che arrivavo a quel punto del testo. Ho fatto più 30 chilometri quel giorno».
Lo consiglieresti?
«Sì, ma solo se lo si vuole fare veramente. Non è un viaggio difficile ma impone un certo spirito di adattamento. Ho dormito con sconosciuti negli ostelli sopportando odori e rumori poco piacevoli. Ho condiviso spazi, ho aiutato e mi sono fatto aiutare da altri pellegrini».
Note dolenti?
«Ognuno percorre il cammino come vuole: c’è chi lo fa in silenzio, chi cantando, chi parlando tutto il tempo, chi con la testa china sul cellulare e chi invece registrando dirette sui social. Non posso dire cosa sia giusto o sbagliato, ma di certo è indispensabile una propensione al rispetto che purtroppo non tutti hanno».
Suggerimenti?
«Partite, informatevi ma lasciate il cuore libero di ricevere quello che il cammino dà, senza crearvi troppe aspettative. E ricordate che il Cammino è contagioso, e crea dipendenza».