cultura
Tony Face va in pensione. Antonio Bacciocchi ci ha raccontato chi è stato
Se sei di Piacenza e non conosci Tony Face puoi anche cambiare sito.
Sì, dico proprio a te che stai leggendo.
Un conto è canticchiare le canzoni che passano alla radio e pensare di “saperne di musica”, altra storia conoscere il valore culturale di figure come quella di Antonio Bacciocchi, con quattro c.
Così, appreso dai social che Tony Face sarebbe andato in pensione, ci siamo allarmati. È come se la statua di Sant’Antonino smettesse di girare o l’Angil dal Dom venisse sostituito con un gallo segnavento.
“Con quella faccia un po’ cosi e quell’espressione un po’ così” per quasi mezzo secolo ha picchiato sulle batterie di una ventina di band di culto. Nel frattempo ha prodotto altri artisti, si è dilettato come disc-jockey radiofonico, con la maturità ha scritto libri e recensioni per decine di riviste, fino ad aprire un blog e non aver più spazio tra gli amici di Facebook da tanto è seguito.
In questi giorni in cui non potrete usare Wikipedia – al buio per protesta contro la riforma Ue del copyright – ce lo ha spiegato lo stesso Antonio Bacciocchi chi è stato Tony Face e perché, dopo quarant’anni di onorato servizio – “al calar della sera” – ha deciso di congedarlo.
Cosa significa per te questo passaggio, che hai annunciato via social.
«Alle soglie dei 57 anni un soprannome di “battaglia” adolescenziale e anglofilo non lo trovo più tanto consono. Comunque è da tempo che firmavo articoli e libri con il vero nome».
Come è nato questo soprannome?
«Alla fine degli anni ‘70, quando incominciai a suonare, i riferimenti erano prevalentemente anglosassoni e suonava meglio un Tony Face di un Bacciocchi, peraltro impronunciabile all’estero. “Face” fa riferimento alla cultura mod dove le Faces erano un po’ i capi. Evviva la mod-estia!».
Ricordiamo chi è stato Tony Face partendo dai Not Moving. Con quella band hai scritto una parte importante della storia musicale. Qual è stato l’apice?
«Dopo aver suonato con i Clash e Johnny Thunders nel 1984 e aver inciso una serie di dischi di relativa popolarità nell’ambito indipendente, nel 1988 ogni concerto era sold out e spesso raggiungevamo le 1000 persone. Giustamente ci separammo proprio in quel momento…poi ho proseguito con Lilith, Link Quartet e un’altra ventina di gruppi».
Come mai i Not Moving non hanno sfondato, nonostante i tanti apprezzamenti, persino di artisti come Max Pezzali in Italia o Jello Biafra in America?
«A un certo punto in molti scelsero o si proposero con la lingua italiana, come Litfiba, CCCP, Diaframma, Gang. Noi rifiutammo un contratto con una grossa etichetta, la CGD, proprio perché ci chiedeva di cambiare dall’inglese all’italiano, che ritenevamo inadatto alla nostra musica. E poi avevamo un sound troppo duro, aggressivo e non eravamo disposti ad alcun tipo di compromesso».
Le scene più folli che ricordi di aver vissuto con i Not Moving?
«La lista è lunga e include risse sopra e sotto il palco, che talvolta ci vide partecipi, più o meno volontariamente, situazioni logistiche indescrivibili, tour in Germania ai limiti della sopravvivenza, date in Sicilia e il giorno dopo a Bolzano, concerto ad Acireale in una rassegna con Ornella Vanoni e Gilbert Becaud o ad Empoli con Gino Paoli e Lucio Dalla».
Lilith, all’anagrafe Rita Oberti – voce dei Not Moving e ora dei the Sinnersaints – è sempre stata al tuo fianco. Come la definiresti come artista e come persona?
«Artista di primissimo livello mai troppo valorizzata come meriterebbe, ma c’è ancora tempo. Compagna di vita. Basta questo».
Sei stato anche tra i fondatori del festival Tendenze. Ricordo concerti meravigliosi e una vera scena musicale piacentina molto animata, poi cosa è successo?
«Corsi e ricorsi, alti e bassi, momenti altamente creativi e altri più anonimi. Probabilmente è il “rock” che è in crisi, i giovani ascoltano altro e la dimensione rock tradizionale non interessa più tanto. Sono affollati i grandi concerti, molto meno quelli con gruppi meno noti».
Un concerto storico fu quello di Manu Chao. Se non sbaglio 10mila persone sotto le mura. Anche lì c’era il tuo zampino. Perché a Piacenza non si riesce più a organizzare grandi eventi?
«Perché è uno sforzo organizzativo immane, i finanziamenti pubblici per la cultura sempre più ridotti, evidentemente la politica non la considera importante, la burocrazia sempre più asfissiante».
Come vedi oggi la scena musicale piacentina?
«Ci sono tanti nomi, nuovi e meno nuovi, in molti riescono ad affacciarsi alla scena nazionale e non solo. Mi sembra ci sia sempre una buona vivacità».
Scrivi per molte riviste musicali, anche a livello nazionale. Come vedi oggi la musica in generale, cioè nell’epoca dei social network.
«Spalmata in mille rivoli, con tanta potenzialità ma, allo stesso tempo, con una concorrenza infinita. È sempre più facile realizzare e incidere musica, sempre più difficile riuscire a farla ascoltare».
Attraverso il tuo blog e i tuoi social sei molto attivo e altrettanto seguito. Dalle fanzine all’era digital, come è cambiato il racconto della musica?
«Ora è tutto più immediato, diretto, veloce. Ogni giorno escono migliaia di dischi e sono tutti ascoltabili tramite internet. Ci vuole molta capacità di selezionare le cose più valide, in mezzo ad una valanga di proposte».
Con quale artista o band ti piacerebbe collaborare, se potessi scegliere?
«Da Paul Weller a uno dei due Beatles rimasti. Mi piacerebbe molto fare qualcosa con Fantastic Negrito, uno dei nomi più freschi e innovativi in circolazione».
Batteristi che ti hanno più influenzato?
«Ringo Starr e Topper Headon dei Clash anche se ho sempre ammirato di più Giulio Capiozzo degli Area».
Qual è il tuo rapporto con i live oggi?
«Attualmente sono fermo, anzi siamo fermi. Non abbiamo niente da dire, meglio stare zitti. In testa mille progetti, vedremo se verrà il momento per rifarci sentire. Oppure rimanere per sempre in silenzio».
Cosa ne pensi della trap e prima ancora del rap o in generale dei fenomeni che irrompono sulla scena musicale, sovvertono tutto ma poi in concreto forse non riescono ad avere un impatto sulla società come negli anni ‘60 o ‘70 o nei ‘90 il grunge.
«Io credo che invece un impatto lo abbiano avuto eccome. Hanno spazzato via la musica rock. I giovani non prendono più in mano una chitarra o un paio di bacchette ma si dedicano a rappare. In classifica ci vanno i trappers e i rappers, il rock è scomparso. Riempiono stadi e palasport solo i grandi nomi classici del rock, di nuovi nomi ce ne sono sempre meno, soprattutto in Italia. Ho seguito e seguo da osservatore rap e trap e ci sono cose interessanti, da Salmo, che sono andato a vedere in concerto ed è eccellente, ai trappers Gemitaiz, Tedua, Achille Lauro. Lo stesso Young Signorino è un fenomeno interessante e innovativo. Basti solo pensare che ha fatto incazzare a bestia tutti noi vecchi tromboni del rock. Ben fatto!».
Una previsione da esperto. Dopo la trap cosa dobbiamo aspettarci?
«Credo che la musica continuerà sempre più a mischiare influenze, sonorità, stili. Allo stesso modo in cui stanno facendo i popoli. Sto seguendo con passione e attenzione la nuova scena jazz inglese che mischia jazz, funk, soul, afro, hip hop, elettronica. Stimolante al massimo!».
Ricordiamo che oltre a musicista sei anche scrittore. Hai firmato molti libri musicali, a quale sei più legato?
«Quello su Paul Weller è quello che mi sono divertito più a fare. “Rock and goal” quello che ha venduto di più e mi ha portato alla Rai, a Sky, RadioMontecarlo, sulla prima pagina del “Corriere”. L’ultimo su Gil Scott Heron è una sorta di missione per far conoscere questo grande personaggio. Il primo “Uscito vivo dagli anni ’80” rimane il mio personale “classico”».
Cinque libri che ti porteresti su un’isola deserta?
«“Guerra e pace” di Tolstoj, “Il vagabondo delle stelle” di Jack London, “La pelle” di Curzio Malaparte, “Il giardino dei Finzi Contini” di Bassani, “1984” di Orwell».
Altra tua passione è il calcio. Dicono che oggi le rockstar siano i calciatori. Sei d’accordo?
«Si, è vero. Incarnano il sogno di ognuno, li vedi esibirsi ogni domenica, uniscono e dividono. Il calcio è ciò che accomuna di più le persone. In quasi tutti i luoghi che ho visitato, dalla Grecia, al Messico, dal Marocco alla Germania Est, dalla Polonia ai paesini più remoti, parlando di calcio ho sempre fatto subito amicizia».
Calcio e musica, due mondi che hanno dialogato spesso e volentieri. Quali i casi più emblematici?
«Da Julio Iglesias portiere delle giovanili del Real Madrid a Ligabue terzino della Correggese. Anche Pavarotti giocava a calcio. Oppure i Beatles a cui fu proibito di esternare passioni calcistiche per non inimicarsi i tifosi rivali, il solo Paul è tifoso dell’Everton, ai punk Cockney Rejects, ultrà del West Ham, che dovettero sospendere per anni l’attività live perché costantemente aggrediti dalle tifoserie avversarie».
Il cinema è un altro “pallino”. Cinque film che per te sono imprescindibili?
“I 400 colpi” di Truffaut, tutto ma proprio tutto Kubrick, “Aguirre furore di Dio” di Herzog, tutto senza distinzioni Alberto Sordi e “Blow up” di Antonioni».
La scena mod è quella che più ti ha rappresentato. Ma cosa vuol dire essere mod – se ci si può ancora definire tali – nel 2018?
«Ci vorrebbe un libro. Rispondo con la solita frasetta ma che funziona sempre: “Vivere in modo (eticamente) pulito in circostanze difficili”».
Ti sei mai immaginato in politica? Magari come assessore alla cultura.
«Mi piacerebbe molto. Davvero molto. Avrei un bel po’ di idee al proposito».
Tony Face va in pensione. Sei sicuro che Antonio Bacciocchi riuscirà a tenercelo per molto?
«Si, una volta chiusa un’attività è meglio non riaprirla più».