Cucina
Gutturnio, quel nome nato (quasi) per caso. Il vino piacentino tra scoperte e ritrovamenti
L’approfondimento “Il vino a Piacenza è una faccenda seria” (clicca qui per leggere la prima puntata) riparte dal Gutturnio, il vino più conosciuto e importante della nostra provincia.
L’approfondimento “Il vino a Piacenza è una faccenda seria” (clicca qui per leggere la prima puntata) riparte dal Gutturnio, il vino più conosciuto e importante della nostra provincia. Perché ha veramente tanto da raccontare, ad esempio che nonostante le sue origini antiche non si è sempre chiamato così. Il suo nome viene coniato nel 1938 da Mario Prati, enologo che ha avuto l’intuizione da un episodio storico di fine Ottocento, tanto fortunato e casuale quanto importante per la tradizione enoica piacentina. Nel 1878, infatti, un ignaro pescatore ripesca uno strano oggetto riaffiorato dalle spiagge limacciose del Po, nella zona di Croce Santo Spirito, nota per la sua ricchezza ittica in tempi in cui il grande fiume non era ancora così inquinato. Pulito dal fango risulta essere una coppa argentea, con manico, riccamente lavorata di cui poi occhi esperti avrebbero definito l’origine romana e il particolare tipo d’uso. Un antico bicchiere della staffa, una coppa condivisa tra i commensali a fine cena, prima di tornare a casa o ripartire, per condividere l’ultimo piacere insieme, quello del vino. Il nome usato dai romani era “Gutturnium” e da lì l’intuizione del Prati, che prende quindi spunto da questo boccale oggi conservato nella Capitale, ai Musei Capitolini, per coniare un nome unico adatto al grande rosso caratteristico della nostra città.
Un’altra scoperta più recente ma di grande portata è il vitigno della Malvasia Rosa, autoctono del nostro territorio e che purtroppo ancora in pochi conoscono. La Malvasia Rosa è un vitigno estremamente raro scoperto in Val Nure, appena 50 anni fa, nel 1967. È tempo di vendemmia, nella cantina dell’Uccellaia quando un mezzadro particolarmente curioso scopre un grappolo dal color lampone: non riuscendo a spiegarsi il motivo di quel colore in una Malvasia di Candia aromatica, a bacca notoriamente bianca, chiede quindi delucidazioni al suo agronomo. La curiosità è un fattore decisamente importante in questa storia, il motore trainante che spinge prima il mezzadro e poi l’agronomo a non liquidare la faccenda, a esplorare il tema, ma per farlo serve una terza persona, un enologo a quel tempo presidente dell’Oiv, l’organizzazione internazionale della vite e del vino: Mario Fregoni. Squilla il suo telefono in Università Cattolica, dove è professore ordinario in viticoltura e gli viene spiegata la situazione. “Professore da un tralcio di Malvasia, insieme ai normali grappoli bianchi, è spuntato un grappolo di colore rosa”, lui ci riflette sopra, ma poi con la sua padronanza della materia capisce che può essere soltanto una cosa. Retromutazione, in pratica una mutazione genetica al contrario di un’unica gemma. La mutazione della bacca nella vite tende normalmente dallo scuro al chiaro, questo è uno dei rarissimi casi in cui è avvenuto il processo inverso. Rapide telefonate partono dall’ufficio universitario, il nostro vuole sapere se una cosa del genere è già successa nel mondo, con la Malvasia. Risultato: solo una volta nel pieno dell’oceano Atlantico, alle Canarie. “Signori qui abbiamo tra le mani una grande possibilità, ho bisogno di quel grappolo” , il grappolo arriverà e le sue attente mani saggie lavoreranno oltre vent’anni, prima sui tessuti risultato di questo straordinario caso e poi sui vitigni sperimentali. Otterrà soltanto agli inizio degli anni 90’ la stabilità del colore, necessaria per presentare il vitigno a Bruxelles come originario della provincia di Piacenza. Sarà riconosciuto e autorizzato nel 1992.