cultura
Enzo Latronico, il giornalista-sceneggiatore che smonta il cinema come i giocattoli
Il cibo nel cinema non è mai stato indifferente. Anzi, in alcuni casi ha addirittura ricoperto un ruolo centrale. Proprio questa commistione tra tavola e cinepresa verrà trattata nel prossimo libro di Enzo Latronico, in uscita a ottobre.
Dalla frittatona di cipolle di Fantozzi accompagnata da partita di calcio, birra gelata e “rutto libero”, alla proletaria pasta e lenticchie in “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, passando per l’incredibile mangiata di fagioli di Terence Hill in “Lo chiamavano Trinità”. Il cibo nel cinema non è mai stato indifferente. Anzi, in alcuni casi ha addirittura ricoperto un ruolo centrale. Proprio questa commistione tra tavola e cinepresa verrà trattata nel prossimo libro di Enzo Latronico, in uscita a ottobre. Il giornalista piacentino, impegnato anche come sceneggiatore e documentarista, sta analizzando le scene più o meno famose tratte dalle pellicole nelle quali gli alimenti diventano personaggi di primo piano. «Piacenza è una grande protagonista dell’arte culinaria – premette Latronico -, ma non ho memoria della sua presenza nel cinema da questo punto di vista, o meglio esclusivamente per questo».
In generale, in quali titoli è comparsa la nostra città?
«Piacenza è stata una protagonista di lusso nel cinema: da “I pugni in tasca” di Bellocchio a “La finestra di Alice di Sarti”, fino ad “Avalanche Express”, “I lupi attaccano in branco” e “Belle al bar”. Mi piace molto ricordare anche “Il complesso della schiava nubiana” con Ugo Tognazzi, episodio del film “I complessi”».
Che film potrebbe rappresentare Piacenza?
«Vedrei bene il nostro territorio dentro una storia del regista Jim Jarmusch: un bel film in bianco e nero dove pare ci sia tutto e invece non c’è nulla. Ma che alla fine pare non ci sia nulla e invece c’è tutto».
Hai curato la sceneggiatura di vari documentari e film, come ”A memoria d’uomo” per il Mibact o “Solo di passaggio” per la regia di Alessandro Zonin. Quali sono le differenze tra la scrittura di un libro e quella di un prodotto audiovisivo?
«Con un libro si è più liberi di creare situazioni e di dirigere i propri personaggi in tutto e per tutto. La sceneggiatura è una scrittura di tipo tecnico, con una scalettatura di sequenze entro le quali inserire dialoghi o situazioni che sul set spesso diventano camaleontiche, adattandosi al regista».
L’anno scorso hai pubblicato “La settima arte della seduzione” insieme a Liviana Rose. Un viaggio tra erotismo e immagini…
«Il libro tratta tutti i generi cinematografici, ma abbiamo lasciato fuori apposta il genere erotico perché altrimenti sarebbe stato troppo facile. Ci siamo invece concentrati sulle scene in cui un velato erotismo ne sottolineava la potenza autorale o filmica, come Anita Ekberg che fa la barba a Frank Sinatra oppure Keanu Reeves morso dolcemente da tre vampire in “Dracula di Bram Stoker”. Poi ci siamo divertiti, è il caso di dirlo, a cercare il titolo: la settima arte, l’arte della seduzione che si fonde con quella del cinema».
Come ti sei avvicinato al cinema?
«È successo da bambino. Ho cominciato a guardare oltre lo schermo: quando qualcuno usciva dall’inquadratura, volevo capire dove fosse finito. Sapevo che c’era qualcosa oltre il quadro ma non sapevo cosa fosse. Gli altri smontavano i giocattoli per capire com’erano fatti, io ho provato e provo ancora a smontare il cinema».
In che modo si è trasformata la fruizione dei film da parte dei giovani?
«Il cinema è cambiato perché la tecnologia si è evoluta. È praticamente sparita la pellicola, Sono cambiate le sale, elemento da non sottovalutare: da quelle grandi, quasi teatrali, si è passati a sale più piccole ma dispersive rispetto a quelle canoniche. È incredibile ma è così. Secondo me, i giovani d’oggi ignorano la storia del cinema, prendono per scontato quello che c’è sullo schermo e non tengono in considerazione il “come”, il “quando” e il “perché”».
Thomas Trenchi
(Pubblicato sul quotidiano Libertà)