curiosità
«Karibu, professor!». Appunti di viaggio dal Kenya di Alberto “Oniango” Gromi
«Il primo pensiero sull’esperienza del viaggio in Kenya dopo sei anni di assenza è semplice: mi è sembrato di tornare a casa». Ecco gli appunti di viaggio del prof. Alberto Gromi.
Dopo qualche giorno di sistemazione delle valige, bucati, stirature, pulizie, ti viene la voglia di mettere per iscritto quello che hai ruminato mentre lavoravi a sistemare la casa.
Il primo pensiero sull’esperienza del viaggio in Kenya dopo sei anni di assenza è semplice: mi è sembrato di tornare a casa.
Mi è sembrato di tornare a casa quando:
– arrivato (dopo cinque ore di attesa a Istanbul) finalmente a Nairobi, in aeroporto, ti accorgi che i 111 euro spesi per il visto on line non sono serviti a niente perché quelli che non hanno il visto on line hanno una fila meno lunga della tua, spendono solo 40 euro e tu pensi: la burocrazia è uguale dappertutto. Ma arrivato, finalmente, davanti all’agente che ti controlla il passaporto trovi un bel sorriso e un cordiale “karibu papa (benvenuto, papà), fino a quando ti fermi con noi?”;
– superato l’ultimo ostacolo esci dall’aeroporto (sono le tre di notte) e pensi: ci saranno venuti a prendere? e in quel momento, fra una cinquantina di persone che aspettano fuori, senti una voce squillante: professor! E’ Anthony che mi ha riconosciuto e si avvicina per accoglierci. Anthony era l’autista che mi accolse, povero pellegrino sperduto, nel 2005 in occasione del mio primo viaggio in Kenya;
– dopo aver dormito qualche ora scendi nello spiazzo del parcheggio della Shalom House e trovi Elphas che ti viene incontro per abbracciarti e tutti ti salutano come se fossi lì da sempre: karibu, professor!
– entri a Kivuli Center (il cuore pulsante dei centri di Koinonia per i bambini e le bambine di strada) e in un corridoio trovi le foto del Teatro Municipale di Piacenza con Muti che dirige la Cherubini e i giovani acrobati keniani si esibiscono. Intanto arriva una signora, che naturalmente non riconosco (soffro di prosopagnosia) che mi fa: “dove sei stato tutto questo tempo? Non ti si vedeva più!”. E’ la signora che si occupa della cucina del centro;
– in alcuni centri che accolgono i bambini di strada qualche ragazzo mi saluta: Hi, Oniango! Oniango è il nome keniano che un gruppo di bambini di strada mi ha dato nel 2005 e mi è rimasto attaccato; ne sono contento anche perché quando mi presento e dico: sono Alberto, non succede niente, ma se dico: sono Alberto Oniango, cominciano cori di sorpresa, di incredulità, sorrisi, risate (un bianco che si chiama Oniango…) e magari salta fuori un ragazzo che mi dice: io sono Oniango, e allora sono abbracci fraterni…
– preoccupato perché, durante il viaggio verso Lengesim, arrivati al maledetto fiume in secca da attraversare col cuore in gola, succede proprio quello che tu, con tutte le tue forze, con tutte le dita incrociate, hai sperato non accadesse mai, considerato che era già accaduto in due viaggi precedenti: il mezzo che ci trasporta si insabbia. E mentre qualche guerriero maasai accorre e si presta per aiutare, ma le ruote girano a vuoto e non c’è speranza di uscire e il tempo passa e il cellulare non trova campo per telefonare nonostante tu abbia messo la scheda keniana… senti una voce: Albeto! – i maasai fanno fatica a mettere insieme due consonanti e quindi ne tolgono una -. E’ mama Moses. Non mi vede da sei anni, ma mi ha riconosciuto subito. Ci abbracciamo. Indossa gli abiti tradizionali, con tanti ornamenti di perline dappertutto, ma ha anche un cellulare che – potenza dei maasai! – trova il campo. E così mama Moses e io, in mezzo a una distesa di sabbia, con la macchina che non si muove e i guerrieri maasai che si affannano inutilmente, possiamo cercare aiuto. Che arriva con un jeeppone americano di un’organizzazione che si occupa di scongiurare il diffusissimo tracoma. Possiamo ripartire;
– arrivati a Lengesesim mi corre incontro suor Ameté: ti ho riconosciuto subito, Alberto! A Lengesim, fra i maasai, il nome Oniango non fa nessun effetto…
– intanto arrivano mama Maria e mama John: abbracci, carezze, inviti a visitare i loro boma. Nel frattempo anche mama Moses è tornata dal fiume maledetto e cominciano le visite. I boma, rispetto a sei anni fa, non sono cambiati molto, ma in qualche caso ci sono delle novità: mama John ha figli che hanno fatto fortuna e le hanno costruito una capanna non più di fango e sterco, ma di lamiera. Mama John, orgogliosa, ci fa sedere nel suo comodo salotto, davanti alla TV, mentre i bambini di tutto il boma e dintorni arrivano a prendere la loro dose di biscotti e le mosche, a nugoli, si posano dappertutto, soprattutto sui visi dei bambini che rimangono impassibili;
– quando è ora di tornare, all’aeroporto di Nairobi, l’agente che controlla il bagaglio mi saluta con simpatia chiamandomi papa. Gli rispondo con un sorriso e gli dico: no papa, papu (nonno). E allora comincia una serie di pacche sulla spalla, risate “Oh, papu, papu, papu”; ride contento e finché non ho varcato la soglia dei gate continua ad ammiccare, anche da lontano, come una litania papu, papu, papu. I nonni sono rari in Kenya e quindi molto popolari.
Si parte per il lungo viaggio di ritorno a casa. Ma a casa, dove?
Alberto Gromi