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Cucina

I vini passiti di Piacenza tra storia, pregio e sapore di liquirizia

Ecco l’ultima puntata dell’approfondimento sui vini piacentini curato da Davide Reggi (clicca qui per leggere la puntata precedente).

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I vini passiti meritano un capitolo a parte nell’approfondimento “Il vino a Piacenza è una faccenda seria” (clicca qui per leggere la puntata precedente). In particolare i vin santi, di cui la nostra provincia può vantare ben due tipi.

Il primo di cui parlare è quello di Vigoleno, che ha la zona di produzione delimitata al solo territorio comunale di Vernasca, probabilmente a denominazione di origine tra le più piccole d’Italia. Si aggiunge poi la tradizione storica, il tipo di produzione e già l’origine del nome stesso del paese, a farne un vino intorno cui aleggia un’aura secolare di magia. La parola Vigoleno deriva da Vico Lieo, ossia villaggio di Bacco in latino, e già nel 1500 Umberto Locati, nelle sue cronache piacentine, citava il borgo come famoso per le sue uve squisite. Gli “Annali di agricoltura del Regno” curati da Filippo Re nel 1813 davano un’idea abbastanza precisa degli uvaggi utilizzati per la sua produzione: 2/3 di Malvasia e Moscatello e 1/3 di altra uva bianca e Trebbiano, fornendo poi spunti anche sulla produzione, che doveva essere fatta dopo Natale, per consentire il giusto appassimento dei frutti. A cui doveva seguire infine un invecchiamento di minimo tre anni, non limitante però, essendo un vino capace di migliorare tantissimo con ulteriore tempo a disposizione. Questo è confortato da altri scritti del 1826, provenienti dal fondo Scotti Douglas del ramo governante il piccolo borgo. Essi descrivono come era uso della famiglia imbottigliare questa bevanda alla nascita di un figlio e donare quindi le bottiglie quando esso si sarebbe poi sposato. Ad oggi il disciplinare è comunque diventato più restrittivo rispetto alle indicazioni dell’agronomo regio, e i mesi di maturazione sono diventati 60, di cui ben 48 da passare in botti di legno da massimo 500 litri di capienza. In ultimo l’utilizzo di vitigni autoctoni riscoperti da poco, come la Melara e la Santa Maria, praticamente inutilizzati in tutto il resto della provincia, contribuisce a rendere questo prodotto davvero unico nel suo genere.

Il Vin Santo dei Colli Piacentini, invece, conserva alcune chicche proveniente dalla zona della Val Trebbia intorno a Statto, in particolare dal castello Anguissola di Travo. Si narra della resistenza dei suoi vini, testimoniata dalla leggenda riportata dai membri della famiglia riguardo una bottiglia stappata nel 1900 e poi perduta. Ritrovata nel 1967 risultava ancora bevibile, avendo conservato maggior parte delle sue caratteristiche intatte. Un altro esempio è la epocale degustazione avvenuta nel 2005 di due bottiglie ritrovate in un’ala poco conosciuta del maniero. Risalenti, dalla data riportata in etichetta, al 1864, alla stappatura hanno rilevato un liquido color cuoio con striature rossastre. Al naso ricordava funghi porcini e sottobosco, alla bocca tamarindo e liquirizia: una manna dal cielo per gli appassionati e gli enologi di professione, per capire ancora di più l’influsso del tempo su questo prodotto così speciale.

Davide Reggi

Classe 1995, da amante folle di cibo e vino si laurea in Scienze Gastronomiche a Parma, dove inizia a coniugare la passione con la scrittura. Ama il silenzio ma anche chi sa parlare, tanto da avere l'ipod pieno di monologhi; venera Marco Paolini, Roberto Bolano e chiunque si esprima con un po' di intelligente leggerezza.