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Giacomo Scaramuzza, partigiano e brillante giornalista: «Così ricostruimmo Libertà dopo il fascismo»

Il 22 agosto 1945, uscì la prima edizione di “Libertà” – fondata nel 1883 da Ernesto Prati – dopo l’oscuramente di diciott’anni imposto dal regime mussoliniano. L’intervista pubblicata su “Libertà” a Giacomo Scaramuzza, partigiano, brillante giornalista e ultima memoria in vita della rifondazione del quotidiano locale.

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Giacomo Scaramuzza

«Mi dò delle arie perché, se non avessimo fatto quei sacrifici settantatré anni fa, ora il quotidiano “Libertà” non esisterebbe». Il partigiano e giornalista Giacomo Scaramuzza ha torto: non è per nulla superbo, anzi. Sul resto, però, ha ragione: il giornale dei piacentini è risorto dal ventennio fascista anche grazie alla sua dedizione. Il 22 agosto 1945, uscì la prima edizione di “Libertà” – fondata nel 1883 da Ernesto Prati – dopo essere stata oscurata per diciott’anni dal regime mussoliniano, che ne aveva trasformato il nome in “La Scure”. «Una rinascita faticosa, piena di difficoltà a causa della carenza di mezzi e delle tecnologie di stampa antiquate. Ma se non ci fosse stata quella dura ripresa, il quotidiano sarebbe morto per sempre», racconta con una punta di soddisfazione.

Scaramuzza è l’ultima memoria in vita di quel periodo travagliato ma anche profondamente stimolante. Accetta di aprire la scatola dei ricordi. Mi attende seduto su una poltrona nella casa di riposo sul pubblico passeggio («a pochi metri da qua, in via Alberici, rientrai in città con la mia divisione durante la Liberazione»), con una sedia vuota di fronte pronta per l’intervista e il tablet in mano acceso sulla foto della prima pagina di “Libertà” del 1945. «Sono sordo, l’apparecchio acustico funziona a sprazzi. Mi perdoni se le chiedo di ripetere le domande». Salvo che, a 95 anni – portando sulle spalle le esperienze da ufficiale degli alpini, partigiano in Valnure, praticante di atletica leggera e brillante giornalista – i problemi all’udito non possono essere un ostacolo. La sua mente è fresca, graffiante e immancabilmente critica. Scaramuzza s’informa, legge e racconta. Anche sul suo profilo Facebook, nonostante l’età: «Sono ancora giovane, può ritenersi vecchio chi ha cent’anni. Certo, un po’ di decenni li regalerei volentieri, ma sembrano una merce poco apprezzata sul mercato», scherza con estrema lucidità.

Cosa rammenta della rifondazione di “Libertà”?

«Dopo la fine della seconda guerra mondiale e la sfilata di Liberazione del 5 maggio 1945, anche a Piacenza riprese la vita normale. Il Comitato di Liberazione Nazionale iniziò a pubblicare il quotidiano “Piacenza Nuova”. Erano dilettanti, così – conoscendo il mio passato professionale – mi chiesero di incontrare l’amministratore per diventare caporedattore del giornale. Per lavorare, il dirigente mi chiese di tesserarmi al Partito socialista; in caso contrario, non sarei servito a nulla. Mi rifiutai, non volevo far politica. Uscendo furibondo dall’ufficio, successe una bella sorpresa».

Cioè?

«Incontrai Ernesto Prati in piazza Cavalli. Aveva due anni in più di me, ma eravamo amici. Gli raccontai il fatto e mi tranquillizzò: “Giacomo, stiamo cercando di ricostruire “Libertà” e tu sarai dei nostri”. E così effettivamente accadde».

In che condizioni versava lo stabilimento di via Benedettine?

«La sede era semi-distrutta. Restava solo un tavolo, che di giorno era riservato all’amministrazione e di notte ai giornalisti. Oltre a me, che ero l’unico giornalista professionista, la piccola squadra era formata dal direttore Ernesto Prati, suo fratello Marcello per la parte burocratica, e il brillantissimo Giulio Cattivelli».

Come si svolgevano le giornate di lavoro?

«Ernesto, pur essendo il direttore, si prestava a visitare la questura, i carabinieri e il pronto soccorso per raccogliere le notizie. D’altronde, non esistevano la rete internet o i telefoni cellulari. Inizialmente, riuscivamo a pubblicare solo due pagine piegate tra loro. Poi cominciammo a proporre quattro pagine alla domenica. Pian piano, il quotidiano si allargò. Il “povero” Marcello Prati si sbatteva a reperire la carta per la stampa, che in quei mesi era poco diffusa. Per un paio d’anni fummo in concorrenza con “Piacenza Nuova”. Dopodiché chiuse i battenti, mentre la nostra “Libertà” cresceva col nome storico della testata. Ero il più giovane della combriccola, avevo solo ventidue anni. Lavoravo quattordici ore al giorno, con un contributo economico irrisorio. Più tardi, ottenni uno stipendio regolare, ricompensando i miei sacrifici».

Facciamo un passo indietro. Come si affacciò al mondo del giornalismo?

«Bazzicavo le redazioni già a quindici anni, in pieno periodo fascista. Trascrivevo i testi su “La Scure” che mi dettava il segretario nazionale del Partito fascista: ero un ragazzino felice di firmare gli articoli. All’università, collaboravo con il settimanale piacentino “La Primogenita”, l’organo ufficiale del partito. Amavo fare il balilla e l’avanguardista. Mi divertivo a impugnare il fucile e a indossare i guanti da moschettiere. Ma soprattutto mi piaceva essere un “bastian contrario”: mio padre era un vecchio socialista e io andavo nella direzione opposta. Poveretto, aveva ragione lui. L’ho capito solo dopo».

Quando decise di cambiare strada?

«Vidi un ufficiale della Gioventù italiana del Littorio derubare degli oggetti. Ingenuamente, lo affrontai a muso e lo denunciai al vicecomandante: fui cacciato con l’obbligo di restituire il distintivo. L’estromissione dal partito avrebbe potuto creare qualche problema a scuola, perciò parlai col segretario federale e venni riammesso. Nella sede dell’associazione studentesca cattolica “Manzoni”, dove giocavo a calcio e ping pong al pomeriggio, notai un altro dirigente intento a sgraffignare: lo segnalai e, neanche a dirlo, mi espulsero. Ma in seguito quell’uomo fu fucilato per omicidio. Insomma, dargli del ladro fu un complimento».

E qui i primi tentennamenti, fino alla svolta decisiva…

«Fui nominato caporedattore de “La Primogenita” e cominciai a comprendere certi meccanismi malsani. Mia sorella si laureò con una tesi su Benedetto Croce, uno dei massimi filosofi dell’epoca. Io leggevo i suoi libri, correvo in biblioteca a sfogliare la rivista “La Critica” e apprezzavo l’antifascismo. Dunque, su “La Primogenita” riferivo le tesi di Croce. Il direttore se ne accorse e mi intimò a fermarmi: “Benedetto Croce è un antifascista e quindi è un porco”. Mi licenziai».

Poi venne ingaggiato dal quotidiano “La Sera-Il Secolo”, vero?

«Sì, esatto. Si trattava di un giornale milanese in cui mi occupavo della cronaca locale. Scoppiò il conflitto mondiale e dovetti interrompere il praticantato».

Nel dopoguerra, ecco la riapparizione di “Libertà”.

«Il settore era arretrato, nel 1945 non disponevamo nemmeno dei telescriventi per trasmettere i messaggi da un edificio all’altro. Le notizie nazionali giungevano dalle agenzie milanesi, che inviavano le rassegne stampa attraverso i servizi postali “fuorisacco” sui treni. Recuperavamo le buste lanciate sulle piattaforme in stazione. Ernesto Prati si era specializzato nella scrittura dei testi dettati al telefono: stringeva la cornetta tra la testa e la spalla, intanto digitava sulla macchina da scrivere con due mani».

Di tempo ne è trascorso. Cosa consiglia ai giovani giornalisti d’oggi?

«Ripropongo un suggerimento eterno: scrivete per le donne di servizio, e non per i professori universitari. Se le prime vi capiscono, lo faranno anche i secondi. Non ricorrete al linguaggio “politichese”, “giornalese” o “critichese”. Scrivere con semplicità non significa essere sciatti».

Thomas Trenchi
(Pubblicato sul quotidiano Libertà)

Classe 1998, giornalista professionista dell'emittente televisiva Telelibertà e del sito web Liberta.it. Collaboratore del quotidiano Libertà. Podcaster per Liberta.it con la rubrica di viaggi “Un passo nel mondo” e quella d’attualità “Giù la mascherina” insieme al collega Marcello Pollastri, fruibili anche sulle piattaforme Spreaker e Spotify; altri podcast: “Pandemia - Due anni di Covid” e un focus sull’omicidio di via Degani nella rubrica “Ombre”. In passato, ideatore di Sportello Quotidiano, blog d'approfondimento sull’attualità piacentina. Ha realizzato anche alcuni servizi per il settimanale d'informazione Corriere Padano. Co-fondatore di Gioia Web Radio, la prima emittente liceale a Piacenza. Creatore del documentario amatoriale "Avevamo Paura - Memorie di guerra di Bruna Bongiorni” e co-creatore di "Eravamo come morti - Testimonianza di Enrico Malacalza, internato nel lager di Stutthof". Co-autore di “#Torre Sindaco - Storia dell’uomo che promise un vulcano a Piacenza” (Papero Editore, 2017) e autore di "La Pellegrina - Storie dalla casa accoglienza Don Venturini" (Papero Editore, 2018). Nel maggio del 2022, insieme ai colleghi Marcello Pollastri e Andrea Pasquali, ha curato il libro-reportage "Ucraina, la catena che ci unisce", dopo alcuni giorni trascorsi nelle zone di guerra ed emergenza umanitaria. Il volume è stato pubblicato da Editoriale Libertà con il quotidiano in edicola. Ecco alcuni speciali tv curati per Telelibertà: "I piacentini di Londra" per raccontare il fenomeno dell'emigrazione dei piacentini in Inghilterra nel secondo dopoguerra, con immagini, testi e interviste in occasione della festa della comunità piacentina nella capitale britannica dal 17 al 19 maggio 2019; “I presepi piacentini nel Natale del Covid”; “La vita oltre il Covid” con interviste a due piacentini guariti dall’infezione da Coronavirus dopo dure ed estenuanti settimane di ricovero in ospedale; il reportage “La scuola finlandese” negli istituti di Kauttua ed Eura in Finlandia.