cultura
Il bacio della Dea montagna, il romanzo di Marco Bosonetto che smonta i tuttologi da salotto tv

Ogni volta che il giovedì ci trovavamo al campo di calcetto era tra i primi ad arrivare. Salutava con cordialità i pochi in orario, si cambiava velocemente e poi, immancabilmente, si riscaldava con qualche giro di campo. Bonario, sorridente, ben voluto da tutti. Da queste premesse non era immaginabile che come calciatore fosse, invece, tra i difensori più arcigni in circolazione. Sto parlando di Marco Bosonetto, scrittore, professore e mio compagno in centinaia di match al campo della Farnesiana. Come mai racconto questa circostanza così privata che, all’apparenza, nulla sembrerebbe avere a che fare con il libro che ha appena pubblicato?
Perché anche Il bacio della Dea montagna è un po’ come il suo autore: ti accoglie, ti accompagna in una storia all’apparenza ordinaria e poi, quando meno te l’aspetti, arriva il tackle a imprimere alle vicende umane una direzione inaspettata. Ma come nei calcetti del giovedì, dove se esageri con i dribbling una “stecca” un po’ te la meriti, non manca mai un sorriso di complicità, come a dire: scusa, ma la vita è così!
Infatti leggendo il volume, uscito con Edizioni Piemme, si sorride dei personaggi e in fondo in fondo di noi stessi. Grazie all’ironia si riflette su questioni attualissime e controverse che, grazie a questa chiave di lettura, ci appaiono sotto una nuova veste. E Bosonetto dimostra, come in passato, di non aver dimenticato la lezioni del maestro Kurt Vonnegut: “La risata e le lacrime sono entrambi risposte alla frustrazione e all’esaurimento. Io stesso preferisco ridere, dato che c’è meno da pulire dopo”.
Di cosa parla il suo nuovo romanzo? Di uno scrittore famoso che, mentre è in vacanza, si accorge di quanto il successo stia distogliendo le persone dagli argomenti dei suoi libri. Ormai è un brand e viene pubblicato ma non letto (forse neppure dalla casa editrice). Un paradosso che lo costringerà a fare i conti con se stesso. Nel mezzo la scomparsa di un gruppo di alpinisti in una escursione e la richiesta di una testata nazionale di scrivere una testimonianza sull’accaduto, nonostante l’evidente impreparazione che il tema richiederebbe; e il figlio adolescente che lo accuserà di vigliaccheria per non averlo aiutato nell’indagine che ha deciso di condurre sulla morte di un camoscio investito da un’auto. Con una trama così era d’obbligo chiedere qualche spiegazioni in più allo scrittore.
Partiamo dalle tue origini. Sei nato a Cuneo ma da molti anni vivi a Piacenza. Come mai?
«Per amore. Ho sposato una donna piacentina, che prima ha fatto la finta di venire a Cuneo ad abitare con me e poi mi ha detto: “Io tornerei a Piacenza, vieni con me?”. Succedeva appunto quasi 20 anni fa, per cui ormai sono anche piacentino»
Cosa ti manca della tua terra d’origine?
«Soprattutto l’aspetto naturalistico, la montagna. Il libro non si svolge nel cuneese ma in Trentino, però sicuramente ho inserito qualcosa delle mie origini».
Nel tuo libro il protagonista, Luca, è uno scrittore che arrivato in montagna per trascorrere le vacanze si accorge che il successo sta oscurando i temi trattati. Com’è nata questa storia?
«Purtroppo non per esperienza personale, visto che nessuno dei miei libri vende così tanto da rendermi famoso. Al protagonista viene invece il dubbio che nessuno lo abbia letto, neppure le persone che lavorano nella casa editrice. È stato un modo per costruire un paradosso, visto che qualcosa di simile non credo avvenga davvero, però mi ha permesso di riflettere sul ruolo degli intellettuali che diventano dei marchi. Non vengono letti o solo superficialmente, ma continuano a vendere. Vale nella letteratura o in altri ambiti. Il nome famoso copre l’opera. Eppure ci sono tanti scrittori bravissimi ma quasi sconosciuti».
Il rapporto tra arte e successo è un tema molto complesso, si potrebbe citare in letteratura il caso di Fabio Volo. Come lo vivi, ancor più da scrittore?
«Quando uno scrive un libro spera che lo legga il maggior numero di persone possibile. Quindi, se non ci riesci, ti viene da pensare con un pizzico di invidia che chi ce l’ha fatta non lo meriti. Ma è un sentimento per certi versi meschino. In alcuni casi il successo è meritato. Se parliamo di Fabio Volo mi risulta difficile affermare che sia così. Ma se penso a Roberto Saviano sono convinto che la caratura letteraria vada di pari passo con la fama. Spesso però vengono pubblicate e pubblicizzate cose molto semplici per andare incontro al gusto comune, quando penso invece che il pubblico andrebbe educato per apprezzare opere anche più complesse».
Altro protagonista molto interessante è Francesco, il figlio adolescente di Luca, che conduce un’indagine privata sulla morte di un camoscio e accusa di vigliaccheria chiunque non condivida la sua sete di giustizia animalista. Come mai hai inserito anche questo tema?
«Ho cercato di rappresentare alcune problematiche tipiche dell’adolescenza. Tra le più attuali, quella di non staccarsi mai dallo smartphone, oppure più universali di avere una visione in banco o nero, cioè senza sfumature. L’incidente del camoscio che diventa un crimine da perseguire a ogni costo lo porta ad accusare il padre di non aiutarlo nel trovare l’assassino, un modo ironico di mettere con le spalle al muro noi adulti verso i compromessi. A volte varrebbe la pena vedersi con gli occhi dei ragazzi, perché molti di noi sono troppo disposti a questo tipo di atteggiamento».
Il riscatto potrebbe avvenire quando un gruppo di scalatori dilettanti si perde e viene chiesto a Luca, il protagonista, di scrivere una testimonianza. Il momento di usare il suo successo per esprimere qualcosa a cui tiene molto. Anche qui tocchi un vizio tipico, non solo del mondo della letteratura ma anche dell’informazione.
«Era per mettere alla berlina l’atteggiamento delle grandi testate, tv o giornali. Una volta che una persona conquistata la fama lo chiamano a esprimersi su qualsiasi cosa. E loro in quanto “firma” si cimentano su ogni argomento. Mi pare un’assurdità. Purtroppo è un fenomeno molto diffuso quello dei tuttologi. E Luca, per certi versi, ne è consapevole. Però non ce la fa a resistere, visto che il suo articolo verrà letto da tantissime persone».
Passando alla scenografia di questa storia, qual è il tuo rapporto con la montagna? Dopo il libro di Paolo Cognetti (Le otto montagne) è tornata molto alla ribalta.
«L’ho letto, però mentre usciva il mio era già pronto. L’ho apprezzato senza entusiasmarmi. La differenza con Il bacio della Dea montagna è che io rappresento una montagna turistica e non come nel suo romanzo un luogo selvaggio di confronto uomo-natura. Nella “mia” montagna vivono la maggior parte di noi, con scarpe da ginnastica per fare una passeggiata e poi finire al ristorante ad abbuffarsi. L’unica riserva su Le otto montagne è quella di rappresentare una montagna più idealizzata che reale. Io ho cercato di parlare sia dell’alta montagna, quindi con la fatica e la necessità di impegnarsi per raggiungerla, ma senza dimenticare il fondovalle, con lo struscio in cui molti esibiscono gli scarponi di marca».
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
«Quello che cito anche nel mio libro è Kurt Vonnegut. È un punto di riferimento assoluto, perché riesce a essere molto buffo, sconfinando poi nel fantascientifico ma toccando temi molto seri. La leggerezza è apparente nei suoi libri. Mi piacerebbe riuscire a far questo nei miei, ma come sempre giudicherà il lettore se ci sono riuscito. Il mio augurio è che si rida parecchio».
Una curiosità leggendo la tua biografia. Hai scritto un libro con Giacomo Vaciago che è stato tradotto in coreano e presto in cinese. Si intitola: L’economia è una bella storia. Immagino che faccia un certo effetto.
«Si era stupito anche Vaciago, ex sindaco di Piacenza purtroppo scomparso lo scorso anno. Lui aveva ideato un libro di economia per ragazzi, io sono intervenuto per semplificare il linguaggio tecnico e per renderlo più appetibile a quel tipo di pubblico. In Italia è stato diffuso, ma non ci aspettavamo certo potesse essere tradotto per lettori coreani e cinesi. Fa piacere e se dovessero invitarmi andrei volentieri, non c’è niente di meglio che viaggiare presentando il proprio lavoro».
Il tuo libro Due vite, invece, è diventato un film con la regia di Alessandro Aronadio. Qual è il tuo rapporto con il cinema?
«Da spettatore di grande amore, sia al cinema che a casa. Questa è stata un’occasione, con un regista a quel tempo esordiente, che ha realizzato in questo periodo il suo terzo film. Mi piacerebbe proseguire, perché è interessante scrivere sceneggiature. È stata una bella esperienza, ho scritto altre cose che sono in stand by ma sarebbe bello vederle sullo schermo».
Nella vita di tutti i giorni sei un insegnante al liceo Colombini. Come vedi il cambiamento dei ragazzi di oggi rispetto alla tua generazione?
«I sociologi dicono che mentre un tempo i grandi cambiamenti tra generazioni avvenivano ogni 25 anni, oggi avvengono ogni 5. La tecnologia ha avuto la sua influenza. Sarebbe stupido demonizzarla e attribuirle delle colpe. Credo invece che molti genitori non siano consapevoli di mettere nelle mani dei figli degli strumenti potenti e utili ma anche in grado di cambiare la percezione del mondo. A mio figlio comprerò il primo cellulare tra poco, a 14 anni, per l’inizio delle superiori. È cresciuto senza uno smartphone personale, che non vuol dire non avere accesso a internet con altri sistemi, ma sempre con un controllo. Non sono mancati i conflitti, ma credo sia l’unico modo per crescere delle persone che usano la tecnologia e non ne vengono usate».
Gianmarco Aimi
