Seguici su

cultura

Vanessa Navicelli, la scrittrice nata sulle colline di Vicobarone che vuole «ricordarci le nostre radici»

Pubblicato il

Quanto ci è costato arrivare fin qua? La risposta, forse, sta nella storia di una coppia giovane, due figlie, un paesino, degli amici, tante difficoltà e la voglia di farcela. Elementi di quotidiana umiltà, calati nella prima metà del Novecento “da qualche parte sulle colline dell’Emilia, al confine della Lombardia, dove la provincia di Piacenza abbraccia la provincia di Pavia”. Stiamo parlando del romanzo “Il pane sotto la neve” di Vanessa Navicelli, una scrittrice piacentina – nata sulle colline di Vicobarone – che ha deciso di «ricordarci le nostre radici». E che, con questo libro autoprodotto, è arrivata in finale al premio RAI “La Giara” del 2012.

Come nasce “Il pane sotto la neve”?

«Io, questo romanzo, credo di averlo sempre avuto dentro, fin da bambina. Non ho frequentato l’asilo, e così nei miei primi anni di vita sono stata quasi sempre con mia nonna e la mia prozia (i miei genitori lavoravano). Mi hanno amata moltissimo. Le ho amate moltissimo. E loro mi raccontavano sempre di quando erano bambine, della vita in campagna, in risaia, e dei loro genitori – i miei bisnonni –, e a me piaceva ascoltarle. Vedevo come mia nonna, ad esempio, non buttava mai via il pane; se a fine pasto ne avanzava, lo metteva da parte da grattugiare o per le galline. E non perché a quei tempi non ci potessimo permettere di buttare un pezzo di pane, ma per il principio in sé. Ho imparato ascoltando e guardando. In più, non so bene perché (credo questione di affinità elettive), sono stata attratta da subito dai film del neorealismo italiano (ero a casa, quindi, oltre a scorrazzare per le colline piacentine, guardavo la tv, mi lasciavano vedere anche i film). Crescendo li ho visti e rivisti migliaia di volte (non esagero…). Fanno parte di me. Così, per vari motivi, ho sviluppato un grande amore e rispetto per la prima metà del Novecento. E ho sempre pensato che, un giorno, l’avrei raccontata, perché anche altri la potessero conoscere, amare e rispettare. Aggiungici che ho un legame fortissimo con le nostre zone (mi basta sentire una frase nel nostro dialetto e ho già gli occhi lucidi!), ed ecco fatto. Il titolo del romanzo viene da un detto contadino: “Sotto la neve il pane, sotto il gelo la fame”. Credo renda perfettamente lo spirito del libro».

 Quali sono le radici piacentine che emergono nel romanzo?

«Quello che sicuramente si nota di più sono i cibi tipici della nostra zona, di cui in sintesi do anche le ricette (i batarö, la chisöla coi grasej, la burtlëina, i pisarei e faśö, il buslâ…) e il dialetto, meraviglioso, sempre accompagnato da traduzione a fianco. I tipi di coltivazioni e di uve (a quei tempi c’erano molti campi di frumento e granoturco, oggi quasi del tutto spariti), e i lavori in campagna, quella ritualità. E poi il tipo di comunicazione delle nostre zone. Asciutta, di pochissime parole, ma sempre dritte all’obiettivo e piene di significato (una tale meraviglia, secondo me, rispetto alla logorrea di oggi). Stessa cosa per il tipo di umorismo, che per me è fondamentale quando scrivo: battute fulminanti, piene di arguzia, che si concretizzavano in frasi brevi ma incisive. Mio padre si porta appresso ancora quel retaggio e infatti, confesso, ho preso a piene mani dai sui modi di dire. Per il resto, molte cose appartengono un po’ alle tradizioni di tutto il nord Italia contadino (anche la Resistenza ci accomuna tutti). E, alla fine, di tutto il Paese proprio. Parto dal locale, ma poi la storia diventa nazionale».

Insomma, quanto ci è costato arrivare fin qua?

«Arrivare fin qua ci è costato moltissimo. Solo nel periodo che tocco io, la prima metà del Novecento, abbiamo dovuto affrontare due guerre mondiali quasi una dietro l’altra, la febbre Spagnola (che ha ucciso anche più gente della prima guerra), la lotta contro il nazifascismo, milioni e milioni di morti, la povertà immane dei contadini e di quello che si potrebbe definire il proletariato (anche se ormai il termine è in disuso). Chi ci ha preceduto ha dovuto affrontare tutto questo e lottare per superarlo, per andare avanti. Se noi siamo qui, oggi, è perché tanti ce l’hanno fatta, facendo sacrifici e sforzi che per noi, ormai, sono inimmaginabili. Ho raccontato di una famiglia contadina povera perché quelle sono le mie origini. I miei nonni erano contadini e manovali. Non ho subito la povertà sulla mia pelle, ma l’ho vissuta attraverso i racconti di chi mi ha preceduta. E non la dimentico. Quel mondo è nel mio DNA. In realtà, con più o meno povertà ma quelle sono le origini di tutti. Veniamo da quel mondo rurale. Anche se oggi ce ne siamo dimenticati e allontanati, tanto che pare solo una leggenda. I ragazzi (la maggior parte) non hanno la percezione di quello che è stato. Siamo un Paese senza memoria. Ecco perché, nel mio piccolo, cerco di tenerla viva. In quanto all’attualità… Be’, credo che il mio romanzo aiuti a ricordare quanto sia importante che ognuno di noi usi senso critico, perché, con la “distrazione”, ci vuol niente a finire prima sotto dittatura e poi in guerra. Ricordare che siamo (dovremmo essere…) un Paese antifascista, per costituzione. Ricordare quanto abbiamo perso di vista le cose importanti, l’essenziale, e siamo, stupidamente, sempre concentrati sul superfluo. Abbiamo dimenticato il valore dalla fatica. Della pazienza. Della perseveranza. Ecco perché racconto di una famiglia contadina, povera, che non molla mai e che sa vedere il buono anche nelle poche cose che ha. La voglia di imitare quella gente, quello stile di vita semplice, quell’essere comunità, ecco tutto questo potrebbe salvarci. Sinceramente: spesso guardo i TG e sento una nausea infinita per quello che siamo diventati. Quindi provo a far ricordare con quello che scrivo che possiamo essere meglio di così! Molto meglio».

In passato hai scritto alcune fiabe per bambini. In che modo i libri per i più piccoli raccontano “cose per adulti”? 

«Molto. Quando scrivo fiabe cerco sempre di pensare a più piani di lettura, far sì che, a seconda dell’età di chi legge, si colgano aspetti diversi. Ho sempre contato molto sul fatto che, leggendo le mie fiabe ai bambini, gli adulti sentissero arrivare anche a loro un messaggio, anzi, di più: uno scrollone. Per esempio, il mio primo libri per bambini, “Un sottomarino in paese”, è sul tema della pace. È importantissimo, per me, iniziare a parlarne presto ai bambini (prima metti il seme di certi valori e meglio è), ma è altrettanto importante ricordare certe cose agli adulti che, specie quando stanno coi bambini, hanno le difese abbassate, recepiscono di più, hanno il cuore più aperto. E la cosa bella delle fiabe è che puoi esprimerti su argomenti importanti in maniera molto più schietta e diretta di quanto non potresti fare in un saggio. È una vera liberazione. Ci tenevo tanto a esordire con quella fiaba e con quella tematica. L’aggressività, la violenza, l’intolleranza che ci sono in giro fanno paura. Ragionare un po’ sulla pace e sulla cooperazione, sulla voglia di conoscersi e andarsi incontro… be’, mi pare sia il momento buono per farlo».

Bambini e adulti, come cambia l’approccio tra i due generi? 

«Poco a dire il vero. Certo, quando scrivi per i piccoli devi usare un linguaggio e un tipo di sintassi più semplice. Ma io detesto il “bambinese”, per cui anche le fiabe sono sì semplici, ma mai cose tipo “il gatto fa miao, il cane fa bau”. Cerco di inserire, in un contesto semplice e comprensibile, qualche parolina qua e là un po’ più complessa (e stessa cosa faccio coi concetti), perché se alla fine della lettura il bambino sa le stese cose che sapeva all’inizio, a che gli è servito? In quanto ai romanzi per i più grandi, io dico sempre che scrivo per le famiglie. Una delle mie parole d’ordine è condivisione. È importante per me sapere che quello che scrivo può essere letto da tutti i membri di una famiglia. Magari con maggiore o minore interesse, ma idealmente va bene per tutte le età. E mi piace pensare che, età diverse, possano poi confrontarsi. Ad esempio, “Il pane sotto la neve”: per i nonni è perfetto perché fa loro pensare all’infanzia, alla gioventù e questo li commuove e li rende felici; per i ragazzi è un modo per approcciarsi in maniera semplice alla Storia e per capire come vivevano quelli della loro età nella prima metà del Novecento; la fascia intermedia (intermedia tra i ragazzi e i nonni) ritrova i racconti che ha sentito dalla bocca dei genitori o altri parenti anziani; infine, ci sono mamme, nonne, papà che ne hanno letto dei brani anche ai loro bambini, proprio per far conoscere le nostre radici. E per i bambini è sempre irreale sentire di quanto erano poveri a quei tempi. Credo facciano più fatica a credere a un tipo di vita così dura piuttosto che all’esistenza del mondo di Harry Potter. Ma è importante che anche i bambini capiscano cos’è la povertà vera, il sacrificio vero. E che capiscano che non riguarda solo Paesi lontani; ha riguardato anche noi».

Cosa vuol dire essere un’autrice indipendente nel 2018? 

«Essere un’autrice indipendente vuol dire lavorare tre volte tanto un autore tradizionale. Se sei un indie devi essere contemporaneamente tre cose assieme: autore, editore, imprenditore. Se non dai di matto, è già una fortuna! Se vuoi fare questo lavoro seriamente, lavori quasi h24. Addio tempo libero e un sacco di altre cose. Si lavora in proprio. E devi fare e coordinare il lavoro che, in altri contesti, farebbero più persone assieme. Ovviamente non faccio tutto da sola. Collaboro con varie figure professionali, come farebbe una piccola casa editrice. Ma alla fine, le decisioni spettano a me. I controlli ultimi spettano a me. Perché sono io e soltanto io che rispondo del libro, una volta uscito. La responsabilità che ti senti addosso è grande. Quindi, quando finisco il lavoro di scrittura… io sono solo all’inizio di un lungo percorso prima di veder pubblicato il libro. E dopo viene la promozione, online e dal vivo, nelle biblioteche. Ecco, se potessi almeno sdoppiarmi, non sarebbe male. La cosa bella è sicuramente l’indipendenza e il fatto che puoi decidere da sola quando e cosa pubblicare, sceglierti la copertina, decidere se tenere o meno prezzi competitivi senza che nessuno te ne imponga uno… Insomma, se riesci a non impazzirci, è sicuramente un lavoro che dà tante soddisfazioni.

Thomas Trenchi

Classe 1998, giornalista professionista dell'emittente televisiva Telelibertà e del sito web Liberta.it. Collaboratore del quotidiano Libertà. Podcaster per Liberta.it con la rubrica di viaggi “Un passo nel mondo” e quella d’attualità “Giù la mascherina” insieme al collega Marcello Pollastri, fruibili anche sulle piattaforme Spreaker e Spotify; altri podcast: “Pandemia - Due anni di Covid” e un focus sull’omicidio di via Degani nella rubrica “Ombre”. In passato, ideatore di Sportello Quotidiano, blog d'approfondimento sull’attualità piacentina. Ha realizzato anche alcuni servizi per il settimanale d'informazione Corriere Padano. Co-fondatore di Gioia Web Radio, la prima emittente liceale a Piacenza. Creatore del documentario amatoriale "Avevamo Paura - Memorie di guerra di Bruna Bongiorni” e co-creatore di "Eravamo come morti - Testimonianza di Enrico Malacalza, internato nel lager di Stutthof". Co-autore di “#Torre Sindaco - Storia dell’uomo che promise un vulcano a Piacenza” (Papero Editore, 2017) e autore di "La Pellegrina - Storie dalla casa accoglienza Don Venturini" (Papero Editore, 2018). Nel maggio del 2022, insieme ai colleghi Marcello Pollastri e Andrea Pasquali, ha curato il libro-reportage "Ucraina, la catena che ci unisce", dopo alcuni giorni trascorsi nelle zone di guerra ed emergenza umanitaria. Il volume è stato pubblicato da Editoriale Libertà con il quotidiano in edicola. Ecco alcuni speciali tv curati per Telelibertà: "I piacentini di Londra" per raccontare il fenomeno dell'emigrazione dei piacentini in Inghilterra nel secondo dopoguerra, con immagini, testi e interviste in occasione della festa della comunità piacentina nella capitale britannica dal 17 al 19 maggio 2019; “I presepi piacentini nel Natale del Covid”; “La vita oltre il Covid” con interviste a due piacentini guariti dall’infezione da Coronavirus dopo dure ed estenuanti settimane di ricovero in ospedale; il reportage “La scuola finlandese” negli istituti di Kauttua ed Eura in Finlandia.