cultura
“Cusa gh’é?”. Il dialetto secondo i bambini della scuola Don Minzoni
“Cusa gh’é?”. Quante volte le mamme lo esclamano con tono scocciato ai loro figli un po’ petulanti. Non a caso, è l’espressione in dialetto piacentino che gli alunni delle classi quinte della scuola elementare “Don Minzoni” – interpellati in un questionario da Libertà – ammettono di aver sentito più spesso.
Nel loro dizionario, però, ci sono anche tante altre parole della tradizione popolare piacentina: “Tò cusein” e “Sigula” sono alcuni dei termini che i bambini scrivono con dieresi improvvisate. Per loro, il dialetto rimanda soprattutto a una sfera affettiva imprescindibile: quella dei nonni e delle nonne, che rappresentano la fonte assoluta e primaria della lingua locale.
Per qualcun altro, invece, è – perché no – uno strumento di integrazione: «Conosco la frase “va a ciapà i ratt”», dice un maschietto di seconda generazione. «Vorrei studiarlo per imparare più cose», continua la piccola Mariglen Sheshi. Chi ha detto che il dialetto è in via d’estinzione? E che gli anziani ne siano per forza gli ultimi custodi? Forse, non resta che chiederlo agli adulti del futuro, con un’età media di dieci anni. «A me piacerebbe apprenderlo meglio – risponde Luca Maserati – per acculturarmi di più».
Il suo compagno Gianmatteo Bisi è d’accordo: «Lo sento parlare allo stadio, ma non lo capisco bene. Vorrei studiarlo per scoprire la nostra lingua di molto tempo fa». Elisa Pezzolato lo ascolta dalla bocca della nonna: «Mi fa ridere!». Cecilia Perazzoli ha uno scopo pratico: «Mi piacerebbe studiare il dialetto, così quando qualcuno lo parla posso inserirmi nel discorso». Filippo Martin Davoli sostiene che lo approfondirebbe «per conoscere Piacenza». Nella lista di vocaboli che preferiscono, ecco spuntare “Bicer”, “Balon” “Andum”, “Sigula”, “Sgiunfadur”, “Tò mär” e “Che spüsa”. Greta si ricorda il proverbio “L’é seimpar méi aspetä chemò che dal duttur” e il verso della canzone “T’al digh in piasintëin, at vöi bëin”. «Mé g’ho fam», aggiunge Elia Tedesco. Poi c’è l’immancabile italianizzazione grammaticale, quella che il giovanissimo Andrea Mirci rivendica scherzosamente: «Lascia lì di ciciarare».
C’è pure chi si oppone alla proposta di portare il vernacolo nelle aule: «Ci tocca già studiare l’inglese… ed è troppo complicato». Fa eco ai detrattori l’alunno Samuele Agosti: «Perché dovremmo utilizzare il dialetto, che ha pronunce così difficili rispetto all’italiano normale?». Prova a ribattergli Giovanni Zazzera: «Fa parte della nostra cultura. Siamo i discendenti, dobbiamo cercare di far imparare la Piacenza d’allora ai piacentini di oggi».
Thomas Trenchi
(Pubblicato sul quotidiano Libertà)