testimonianze
Pietro Amani, 97 anni, l’ultimo superstite piacentino dei gulag: «Portavamo via i cadaveri per un mestolo di zuppa in più»
«Intorno al giorno di Natale, verso le otto, con tutte le divisioni italiane e tedesche raggruppate, ci circondarono con i lanciarazzi Katjuša e cominciarono a piovere esplosivi sulle nostre teste».
«Avevo la morte addosso». Quella sensazione la sente ancora nel cuore, il 97enne Pietro Amani, l’unico tra i prigionieri piacentini nei gulag ancora in vita. Nella schiena, vicino alla colonna vertebrale, tuttora sono conficcate alcune schegge della «pioggia di bombe russe» che ha vissuto sulla propria pelle nel dicembre 1942, durante la Seconda guerra mondiale, nella valle di Arbusov sul fronte orientale, poi divenuta nel ricordo dei reduci italiani la “valle della morte”.
I segni più profondi però – e non potrebbe essere altrimenti – li ha nell’anima: mentre ricuce scrupolosamente i dettagli della sua storia, gettandoli fuori come un fiume in piena, gli occhi si inumidiscono e le emozioni traspaiono senza nessun filtro. Alle sue spalle, sulla scrivania, conserva gelosamente una vecchia macchina da scrivere con cui qualche anno fa ha impresso sulla carta il suo “Diario di prigionia” pubblicato dalla Banca di Piacenza.
Perché Amani, fante dell’82esimo Reggimento Fanteria “Torino”, è un testimone diretto dell’orrore dei campi di prigionia di Stalin. Nel Natale del 1942, infatti, fu catturato dall’Armata Rossa in Russia e internato a Karaganda (oggi nel Kazakistan), un gulag spaventosamente enorme in cui morirono all’incirca 500mila esseri umani. E in pochissimi, tra cui Amani, riuscirono a tornare a casa. Nelle sue parole non ci sono riferimenti alle grandi ideologie del tempo o alla politica – «non me ne fregava nulla, da giovane aiutavo mia madre nel pollaio» -, ma solo tanta sofferenza e un pizzico di rabbia per chi lo mandò a camminare coi piedi congelati su un tappeto di cadaveri.
Amani, lei quando entrò nell’esercito?
«La mia classe è quella dell’anno 1921. Venni chiamato alle armi nel 1941, ma ritardai leggermente perché i miei due fratelli erano già in spedizione. Uno di loro fece ritorno con un grave infortunio al braccio e venne messo a riposo. Toccò a me».
Cosa sapeva della guerra, prima d’allora?
«Nulla. Non avevo paura, pur avendo sentito a lungo parlare i miei parenti del conflitto mondiale dal 1915 al 1918. Solo dopo, purtroppo, compresi cosa fosse la guerra …».
Un anno dopo, la vostra compagnia venne inviata sul fronte russo lungo il fiume Don, per dare il cambio alle truppe italiane.
«Non riesco a capire perché quei soldati anziani vennero rimpiazzati con noi giovani. Avevo poco più di vent’anni. Il 16 dicembre 1942, fummo accerchiati dalle forze sovietiche, ci impartito l’ordine di ripiegare e di bruciare le scorte di viveri. Ci incolonnammo e iniziammo a marciare per l’intera nottata, giungendo in un paesello pieno di isbe (le tipiche abitazioni rurali russe, costruite in tavole di legno e tronchi d’albero, ndr.)».
Lì cominciò il dramma dell’annientamento dell’Armir, l’Armata italiana in Russia, vero?
«Sì, arrivammo nella “valle della morte”. Lungo il percorso, subimmo l’attacco dei cosacchi. E nel trambusto, mentre gli altri soldati cercavano di arrampicarsi anche sul mio veicolo per scappare, si ruppe la corona del differenziale della camionetta che avevo in dotazione. Restai a piedi. E a mia volta provai a salire di nascosto su un camion dell’artiglieria per ripiegare verso la sacca di Arbusov».
Cosa accadde a quel punto?
«Intorno al giorno di Natale, verso le otto, con tutte le divisioni italiane e tedesche raggruppate, ci circondarono con i lanciarazzi Katjuša e cominciarono a piovere esplosivi sulle nostre teste. Ma i nostri superiori non avevano capito che saremmo andati incontro a una tragica imboscata e a un’infinità di morti? In quel momento, ero con un ufficiale tedesco che mi stava aiutando a ritrovare la compagnia. Udendo il primo botto, mi misi a correre all’impazzata, senza mai fermarmi. Lui si arrabbiò, mi disse che avrei dovuto accasciarmi prontamente per terra. Fortunatamente, non mi colpirono».
Che fine avevano fatto i suoi amici e colleghi di reparto?
«I membri della mia compagnia erano rimasti in diciannove, con un tenente ubriaco. Qualcuno era stato ucciso, altri si erano persi nel caos generale. Metà della nostra mandria di mucche, impiegata per sfamarci, era stata ammazzata. Restammo coricati sotto le piante per un po’ di tempo. Mi rifugiai con un anziano soldato originario della frazione di Settima a Gossolengo. Mi rassicurava che lì non ci avrebbero colpito con le cannonate. Non immaginavamo, però, che avrebbero fatto ricorso alle bombe a farfalla, che esplodevano in vari pezzi durante il volo. Mi perforano la schiena. Sanguinavo copiosamente, faticavo a muovere le gambe. Un medico mi fasciò l’emorragia con un lembo del cappotto. Nel frattempo, l’uomo di Settima era morto a causa di un frammento penetrato nello stomaco. Eravamo chiusi in un imbuto, con i russi in alto che ci intimavano di disarmarci. Non volevamo più combattere, io avevo pure perso il fucile».
Vi fecero prigionieri e vi deportarono nei campi di prigionia. Cosa ricorda?
«Il viaggio durò quasi un mese, prima a piedi al freddo e poi accatastati nei carri bestiame a grattare il ghiaccio dalle pareti del vagone per bere un po’ d’acqua. Assomigliavo più ad un animale che a una persona. Una volta – esausto e con le dita congelate – pregai un russo di uccidermi: “Kaput!”. Non lo fece, mi rispose che ci saremmo fermati a breve. Raggiungemmo il lazzaretto in Siberia, dove ci costringevano a dormire sul pavimento in legno. Lavoravo in lavanderia con le donne. Quando i miei piedi guarirono – anche se le unghie ricrebbero solo successivamente in Italia – scelsi di andare nel bosco. Il comandante russo mi affidò un barattolo di vernice bianca con cui segnare le piante da abbattere per fare la legna e quelle da preservare per mantenere una bella vegetazione».
Pensava che sarebbe mai tornato a Piacenza?
«No, erano morti quasi tutti. Portavamo via i cadaveri, in cambio di un mestolo di zuppa in più. Quei corpi erano tagliati a metà e ricuciti, secondo me li utilizzavano per analizzare gli organi o compiere gli esperimenti medici. In più, si soffriva di due malattie: dissenteria e tifo petecchiale».
Quando venne liberato?
«Alla fine della guerra, nel 1945. Arrivai a casa in novembre. La mia famiglia aveva avuto la bella notizia grazie alla comunicazione dei nomi dei superstiti alla radio. Mi stavano aspettando».
E cosa le disse sua madre?
«Aveva sofferto parecchio, poterla riabbracciare fu un’emozione bellissima. Non si può spiegare».
Thomas Trenchi
(Pubblicato sul quotidiano Libertà)