Cucina
Mareto, Pugni racconta l’agricoltura come «atto d’amore incondizionato verso la terra»
Che cosa l’ha spinta a sopportare tutte le sconfitte che la sua terra le ha rifilato negli ultimi anni? «Magari i nostri prodotti – risponde – non hanno un gusto migliore rispetto a quelli in vendita al supermercato. Ma li conosco a fondo, perché condivido con loro la stessa aria». Un’aria che respira fin da bambino e che continua a creargli un certo inebriamento. Un rapporto etico che può essere il motore più grande per spingere le persone a ripopolare la montagna, nonostante le difficoltà e i sacrifici inevitabili.
Salire a Mareto significa uscire dal nostro mondo: la nebbia e l’umidità scomapiono, lasciando spazio a un sole potente e a qualche piccolo accenno di neve. Superata Bettola e arrivati a Farini, si devia a una ripida salita, che dopo sei chilometri di curve termina in un gruppuscolo di case, formato da una quarantina di anime. In passato, quaranta erano le realtà lavorative, tra il vero e proprio paese e le altre frazioni della zona, e in una di queste, il caseificio, lavorava Giovanni Pugni, uno degli ultimi agricoltori e allevatori attivo nella zona.
Mi accoglie in tuta da lavoro, è sveglio dalle sei di mattina, perché alle sette in punto le vacche vogliono (giustamente) fare colazione. Mi accompagna a conoscerle, sia quelle messe ad ingrassare che quelle libere, impegnate ad accudire i vitelli nati da pochi mesi. «Un tempo le portavamo al pascolo sul monte Aserei – racconta -, noi bambini salivamo con i nonni su questi altipiani verdissimi, mentre i nostri genitori rimanevamo a casa a lavorare nei campi. Era il nostro divertimento estivo». Ora tutto è cambiato: sono passati sessant’anni da quei giorni d’infanzia. Pugni ricorda il tempo trascorso a lavorare nel caseificio di Mareto, chiuso nel 1987. Impossibile dimenticare la raccolta del latte nelle varie stalle del paese, per conferirlo poi al caseificio più vicino e dare il via alla produzione di ogni sorta di genere alimentare.
Dopo la chiusura del caseificio a Mareto, la consegna del latte venne spostata a Pianazze, che purtroppo pochi anni dopo avrebbe seguito a ruota la stessa sorte. A quel tempo, cento litri di “oro bianco” erano sufficienti a garantire un reddito sufficiente a una famiglia, e poi si arrotondava con le entrate dei mestieri stagionali: la raccolta del riso nelle risaie del vercellese, quella dei pioppi nella zona bergamasca, e tanti altri piccoli espedienti che permettevano di vivere in luogo tranquillo e a contatto con la natura, una montagna ancora ribollente e in fermento.
Anche le patate erano un mezzo di sostentamento, garantivano qualcosa in più da portare sulla tavola. «Furono i villeggianti, chi veniva a passare l’estate da noi, a farci capire il potenziale di questo prodotto – rivela Pugni –. Così è nata la festa delle patate di Mareto e abbiamo incominciato ad attrezzarci, comprando i macchinari in società e aumentando la produzione del tubero». Questa manifestazione ora rappresenta un momento di vita del paese: «I giovani hanno messo in campo le idee le idee e noi anziani l’esperienza». Attorno alle patate, sono nati i mercatini di Natale e lo street food, per far rivivere la montagna con un pizzico di spregiudicatezza e la giusta collaborazione dell’intera comunità.
Pugni affronta, con amarezza, la questione del “dopo”: gli mancano pochi anni alla pensione e, probabilmente, non ci sarà nessun erede a sostituirlo. Riconosce la difficoltà odierna del settore, che non permette più di vivere con le proprie produzioni semplici. «È un lavoro durissimo e totalizzante, un atto di amore incondizionato verso la terra, e come tale prevede tante sconfitte».
Per sfuggire alla malinconia e al vento pungente, ci rifugiamo nel bar del paese: un locale comunicante con la sala da pranzo di un’abitazione, e davanti a un buon bicchiere di vino trovo il coraggio per porgli un’ultima domanda: “Che cosa l’ha spinta a sopportare tutte le sconfitte che la sua terra le ha rifilato negli ultimi anni?”. «Magari i nostri prodotti – risponde – non hanno un gusto migliore rispetto a quelli in vendita al supermercato. Ma li conosco a fondo, perché condivido con loro la stessa aria». Un’aria che respira fin da bambino e che continua a creargli un certo inebriamento. Un rapporto etico che può essere il motore più grande per spingere le persone a ripopolare la montagna, nonostante le difficoltà e i sacrifici inevitabili.
Davide Reggi