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Cucina

La “carne salata di porco” tipicamente piacentina. Tutti i salumi dimenticati…

NUTRENDO LE RADICI – La rubrica culinaria a cura di Davide Reggi.

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Piacenza è un territorio particolarmente vocato per la produzione di carne di maiale, soprattutto sotto forma di salumi: l’arte della conservazione ha origine antichissime e qui vanta numerose testimonianze.

Nella zona tra Alseno e Caorso sono state ritrovate carcasse di maiali privati delle cosce risalenti all’epoca delle Terramare, antiche civiltà fluviali tipiche dell’Età del Bronzo.

Tornando a epoche più recenti come non citare il cardinale Giulio Alberoni, che portava i nostri prodotti alla ricca Corte spagnola o il frate domenicano Giuseppe Falcone, che nel XVI secolo aveva già stilato un primo disciplinare per la produzione della “carne salata di porcotipicamente piacentina. Il religioso scriveva di «lasciare l’animale a digiuno un giorno prima della macellazione, per avere una carne più pulita e asciutta dagli umori interni», accorgimento in linea di massima valido ancora oggi. Falcone dava poi indicazioni sul clima e la condizione astrale: luna decrescente per una carne più soda e conservabile, sole alto e temperature rigide per acquisire proprietà nella salagione.

Erano i primi passi di una scalata che nel tempo ha portato la nostra provincia a vantare tre salumi DOP, il massimo riconoscimento europeo per gli alimenti tradizionali di qualità.

I salumi piacentini dimenticati…

Sono parecchi i salumi del nostro territorio, alcuni pochi conosciuti o dimenticati. Proviamo a tenerli vivi, ricordando quelli che per un motivo o l’altro annaspano. In Val Trebbia, ecco il bracchettone, ormai rarissimo per via dell’utilizzo della coscia, destinata oggi solo alla produzione di prosciutti. Essa, dopo la salatura, viene stretta fra due assiccelle di legno e stagionata per un massimo di quindici giorni. Il consumo prevede un preventivo ammollo in acqua tiepida e la cottura per circa tre ore: il bracchettone viene servito caldo nel classico carrello dei bolliti.

Rimanendo sugli insaccati cotti come non parlare del cappello del prete, così chiamato per la particolare forma a copricapo dei sacerdoti di una volta. L’impasto è simile a quello del cotechino e l’insacco è formato da cotenna cucita a forma di triangolo. Dopo l’asciugatura e 4 mesi di stagionatura è pronto per il consumo, momento laborioso che richiede addirittura 2 giorni di ammollo e una cottura di 4 ore. È tipico delle feste natalizie e viene normalmente servito con patate o spinaci.

A proposito dei cosiddetti salumi di scarto, in pochi si aspetterebbero la produzione di culatello anche nella nostra provincia, ebbene è quasi estinta, ma dai rimasugli di esso si ricavava il fiocchetto. Piccolo e molto magro, veniva consumato poco stagionato e c’era l’usanza, per contrastare l’eccessiva durezza, di conservarlo in un telo imbevuto di buon vino bianco: metodologia attualmente rimasta viva per facilitare la spellatura del salame molto stagionato.

Portando infine il riutilizzo degli scarti al livello massimo si ottiene la cicciolata, tappa conclusiva della nostra carrellata, la cui produzione è uno vero elogio dell’inventiva. Gli ingredienti di partenza sono le parti migliori della testa dell’animale, che vengono cotte per 5-6 ore insieme ad erbe e odori. Avviene poi la tritatura, in cui il composto è mescolato a ciccioli precedentemente fritti e poi pressato. L’impasto è dunque avvolto nel lino e pressato sotto il torchio, per eliminare l’acqua e il grasso in eccesso, prima di essere tagliato a parallelepipedi. Il momento finale per un prodotto nuovo, testimone ancora una volta che del maiale proprio nulla viene buttato.

Davide Reggi

Classe 1995, da amante folle di cibo e vino si laurea in Scienze Gastronomiche a Parma, dove inizia a coniugare la passione con la scrittura. Ama il silenzio ma anche chi sa parlare, tanto da avere l'ipod pieno di monologhi; venera Marco Paolini, Roberto Bolano e chiunque si esprima con un po' di intelligente leggerezza.