Cucina
Formaggi piacentini: dal provolone al “furmai nis”. Le radici dimenticate
NUTRENDO LE RADICI – L’origine del provolone è chiaramente meridionale. Nel Sud Italia il nome “provola” è ampiamente diffuso e utilizzato per varie tipologie di latticini. La diffusione nella nostra zona è il risultato di un’emigrazione dei casari napoletani.

Nella scorsa puntata della rubrica “Nutrire le radici” abbiamo parlato dei salumi, quelli di cui – per un motivo o per l’altro – si è persa la tradizione. Una sorte ingenerosa toccata anche a tanti altri prodotti storici del nostro territorio, usanze legate a tempi passati di cui la modernità ha conservato solo piccoli stralci.
Se si parla di formaggi di Piacenza, oggi ne viene in mente solo uno: il Grana Padano, che totalizza la scena e affonda le sue radici agli albori del millennio scorso. La sua produzione lunga e laboriosa, nei secoli scorsi, era un rischio troppo grande per essere preso a cuor leggero. L’ingegno ha voluto trovare prodotti di rimedio, di recupero, che tutelassero il produttore anche in caso di difetti di produzione.
Così nacque il furmai nis, il cosiddetto formaggio coi vermi, la cui procedura arcaica fa capire perché sia stato dichiarato fuorilegge dalla Commissione Europea. Il formaggio difettato, ancora nelle prime fasi della maturazione, quindi relativamente morbido, veniva messo in un vaso di vetro a macerare, con grappa e qualche cucchiaio di miele. Lasciato al buio, ogni tre o quattro giorni si apriva il contenitore per far prendere aria al composto e forarlo con uno spillo di legno.
La fase all’aria era importantissima perché permetteva ai moscerini di deporre le uova nel formaggio ormai marcito, da cui poi sarebbero nati i vermi, testimonianza che il formaggio era pronto per essere consumato. Il sapore piccante era particolarmente apprezzato nelle osterie, perché richiamava un maggiore consumo di vino. Sempre dagli scarti di produzione del Grana Padano, in particolare dal siero, ciò che rimane del latte dopo aver fatto coagulare le proteine tramite il caglio, in Val d’Arda si produceva il Casalino. Si univa della panna e il composto ottenuto veniva fatto cagliare, una notte di riposo precedeva una stagionatura molto breve, che si prolungava al massimo per due mesi.
Passando a parlare della Ribiola della Bettola chiamiamo in causa il cardinale Alberoni e il re Filippo V di Spagna. Infatti nelle lettere di richiesta di prodotti piacentini, che puntualmente il prelato faceva su richiesta del monarca compariva questo formaggio, e si narra che il nome fu inventato da Filippo in persona. Veniva prodotto fino al secolo scorso da una miscela di latte vaccino e pecorino, per essere consumato fresco o dopo un processo di stagionatura che prevedeva prima una bagnatura in vino bianco, e poi la conservazione sott’olio in vasi di vetro. Quest’ultima conferiva un colore rossastro e un sapore non propriamente delicato, che però era apprezzato in una delle corti più importanti d’Europa.
Infine, tramite un ultimo salto nella storia, questa volta a fine diciannovesimo secolo, si può incontrare la particolare vicenda della nascita del Provolone Valpadana, unico altro formaggio a Denominazione di Origine Protetta producibile nella provincia di Piacenza. L’origine è chiaramente meridionale, dove il nome provola è ampiamente diffuso e utilizzato per varie tipologie di latticini, e la diffusione nella nostra zona è il risultato di un’emigrazione di un nutrito numero di casari dalle zone napoletane. Il motivo di questo passaggio è chiaramente spiegato nell’inchiesta agraria compilata dal senatore cremonese Stefano Jacini nel 1880. Qui al nord, a quel tempo, il latte costava significativamente meno, 150 anni di storia hanno poi portato a richiederne il riconoscimento come prodotto tipico del territorio.
Davide Reggi
SportelloQuotidiano.com
