testimonianze
Rinchiuso in un lager, il piacentino Alberto Sivelli scriveva: «Finirà questa vita»
Pubblicato sul quotidiano Libertà • Le lettere del soldato piacentino Alberto Sivelli, che scriveva alla sua famiglia da un campo di prigionia nazista… E l’appello della figlia a «rispettare i vivi e onorare i morti».
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“Già da molti giorni non oso avere tue notizie, spero sempre in bene. Mi auguro che prima di Natale arrivino i pacchi spediti da casa in settembre. Ieri ci hanno dato solo un chilo di pane per tutti. Ti puoi immaginare? Finirà questa vita”. Alberto Sivelli, soldato classe 1916, fu catturato dai tedeschi il 10 settembre 1943 in Albania. E da lì fu caricato su un vagone e deportato nello “Stalag XVIII-A”. Cioè un campo di prigionia nazista a Wolfsberg, nel sud dell’Austria, da cui il piacentino scriveva continuamente: agli amici, ai genitori e, soprattutto, alla sorella.
Forse, quelle lettere (massimo due al mese, soggette alla censura dei funzionari del Terzo Reich, con l’assoluto divieto a usare abbreviazioni o sottolineature) erano la sola speranza a cui aggrapparsi: una mano d’inchiostro tesa alla sua famiglia così lontana.
Sua figlia, Giovanna Sivelli, ha ritrovato i messaggi epistolari che il padre mandava a Fiorenzuola, all’indirizzo della piccola casa da cui se n’era dovuto andare troppo giovane. Li ha riletti uno a uno, con una commozione che è salita lentamente dal profondo dell’anima. Ora li custodisce come un tesoro prezioso, ma soprattutto come un monito per le nuove generazioni a «rispettare i vivi e onorare i morti». Un invito ancora più calzante a pochi giorni dall’anniversario della liberazione d’Italia del 25 aprile: «Per me è un giorno di grande tristezza e rimpianto, poiché il mio pensiero va inevitabilmente a mio papà, Alberto Sivelli, un ragazzo poco più che ventenne catapultato in una situazione paradossale, in pericolo, al freddo e senza cibo – rimarca Giovanna -. A mio figlio voglio lasciare l’eredità morale e il compito di custodire i cimeli di suo nonno con altrettanta cura e riconoscenza».
Un’altra cartolina del 2 settembre 1944, firmata da Alberto Sivelli e inviata alla madre Carolina Casotti, riporta uno strato d’inchiostro nero sulle ultime frasi. La censura dei nazisti lasciò intatta solo una parte del testo: «Mamma, io sto bene e spero anche voi tutti. È già da tempo che non sento vostre notizie…». E stop. Il resto è una distesa di vernice scura impressa dai tedeschi. In una lettera del 19 maggio 1944, invece, chiedeva alla famiglia di spedirgli nel lager «un passamontagna di lana, indumenti, riso, pasta, tabacco e pane non dolce. Baci, Alberto».
Attraverso questi scritti accorati – in cui la fame faceva da padrona – Giovanna ha provato a ricostruire gli anni terribili vissuti dal padre, deceduto nel 1962: «A vent’anni partì per il servizio di leva e nel 1939 fu richiamato alle armi come artificiere. Si trovò a combattere dapprima sulla frontiera alpino-occidentale e poi in Albania. Successivamente, fu promosso a caporale. Secondo il suo foglio matricolare, rimase ferito alla gamba destra e venne decorato della croce di guerra al valor militare. Dopo la cattura da parte dei tedeschi, restò rinchiuso in un campo di concentramento fino al 9 maggio 1945. A conti fatti – sottolinea la donna -, dedicò quasi otto anni della sua vita alla Patria. Tutti abbiamo un grande debito di riconoscenza nei confronti dei servitori dello Stato come lui».
«Natale lo passo lontano»
Era il 25 dicembre 1943, il giorno di Natale. Il soldato piacentino Alberto Sivelli, prigioniero numero 7915 nel lager nazista di Wolfsberg in Austria, scrisse alla sua famiglia a Fiorenzuola: «Carissimi genitori, di nuovo vi invio mie notizie dicendovi che mi trovo in buona salute e vorrei anche voi tutti. Desidero sapere le precise notizie, specialmente quelle di mamma. Natale me lo passo lontano però bene e come spero di voi. Baci, vostro Alberto».
Sivelli venne catturato dai tedeschi in Albania qualche ora dopo il proclama di armistizio pronunciato dal generale Pietro Badoglio l’8 settembre 1943. E la sua lettera (detta “kriegsgefangenenpost”, cioè la corrispondenza per prigionieri di guerra censurata dai nazisti prima della spedizione) arrivò nel nostro territorio il 2 febbraio 1944, oltre un mese dopo.
Thomas Trenchi
(Pubblicato sul quotidiano Libertà)
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