cultura
La chiesa-teatro di San Lorenzo: uno dei luoghi “dimenticati” di Piacenza che hanno davvero fatto la storia
CARAMELLE AGLI SCONOSCIUTI, rubrica a cura di Michela Vignola – Riaprirà i battenti come auditorium polifunzionale, uno spazio che a metà dell’800 fu protagonista della vita culturale e politica della città. Un viaggio nel tempo alla ricerca di analogie e differenze con quello che accade oggi.
La notizia è circolata nei giorni scorsi. Una di quelle “per addetti ai lavori”, che si scordano subito e sui Social non viene condivisa perché non suscita entusiasmo né polemiche. La chiesa di San Lorenzo – risalente al XIV secolo – tornerà presto a disposizione dei piacentini: grazie a un importante intervento di recupero e restauro, l’edificio gotico di vicolo del Consiglio (quasi di fronte al Tribunale) si trasformerà in uno spazio polifunzionale dedicato ad arte, teatro, musica e moda, con un auditorium da circa 500 posti. L’investimento previsto si aggira intorno ai 400mila euro e i lavori, appena cominciati, potrebbero concludersi entro il 2020.
Fin qui la cronaca.
Costruita nel 1333 dai Padri Carmelitani di Sant’Agostino e chiusa nel 1808 dopo la soppressione degli ordini religiosi da parte di Napoleone, San Lorenzo venne adibita a diversi usi decisamente laici: le truppe napoleoniche la utilizzavano come magazzino (i soldati alloggiavano nel convento annesso, andato completamente distrutto) e come ricovero dei cavalli. Ma ben presto l’ampiezza e le caratteristiche dello spazio fecero nascere l’idea di farne un uso teatrale. Nel 1857 venne allestito al suo interno un Teatro Provvisorio, così chiamato perché si prevedeva di utilizzarlo solamente per un breve corso di rappresentazioni. Come spesso accade, le cose andarono diversamente. Ciò che è fatto per durare non dura, e viceversa.
Una storia salvata dalla polvere
Io avevo 23 anni. Non quando San Lorenzo era un teatro. Ma quando scrivevo la mia tesi di laurea in Lettere con specializzazione sulle arti sceniche. Volevo indagare la vita teatrale piacentina dell’800 e mi sono buttata a capofitto nelle ricerche d’archivio: materiali inediti, manoscritti, grafie affusolate ed eleganti, locandine d’epoca, buste sigillate e mai aperte, conservate nelle ampie stanze di Palazzo Farnese, mi hanno aperto le loro preziose e intatte viscere, tra emozioni vintage e crisi d’asma per la polvere vecchia di più di un secolo. Ma ne è valsa la pena. Ho scoperto un mondo. Una incredibile realtà di rappresentazioni, imprenditori lungimiranti e spregiudicati, fallimenti e sperimentazioni, che animava quegli anni; una vitalità oggi impensabile all’ombra del Gotico e un rapporto strettissimo dei piacentini dell’epoca con il teatro, la prima e principale fonte di divertimento.
Dopo qualche tempo, appurato che il teatro non sarebbe stato affatto provvisorio, prese il nome di Teatro Colombini, da Luigi Colombini, di professione falegname-macchinista, già noto in città come costruttore delle macchine pirotecniche che venivano bruciate in piazza dei Cavalli in occasione delle principali festività e macchinista del Municipale.
Il Teatro fu edificato interamente in legno, carta e tela, in soli quaranta giorni e, nonostante la povertà, l’estrema deperibilità dei materiali e la rapidità della costruzione, risultò confortevole ed grazioso. Venne costruito il palcoscenico nella zona absidale, sistemate panche di legno lungo le navate e collocate sui pilastri candele di cera per l’illuminazione. Quando a Colombini si affiancò un socio, il sig. Ricordi, il Teatro divenne semplicemente “Colombini e Soci”, senza – immagino – troppe indagini di mercato.
I due costruttori si erano impegnati a scritturare una compagnia di buon livello che desse un corso di rappresentazioni durante il Carnevale, prevenendo un’esigenza già avvertita dal Podestà, cui premeva ”procacciare nel prossimo Carnevale un onesto e conveniente trattenimento anche alla classe meno agiata della popolazione”, come si legge nei carteggi d’Archivio. Il Podestà, che aveva accordato il permesso di costruire il teatro, ordinò in seguito una perizia tecnica per valutarne solidità e sicurezza: i due falegnami dovevano aver fatto un buon lavoro, se l’Ingegnere incaricato dal Comune di Piacenza lo definì “giudiciosamente composto in tutte le sue parti”.
Il teatro era fondamentale mezzo di cultura e di svago. Allora, quella del Carnevale era la stagione più lunga dell’anno teatrale: iniziava la sera di Santo Stefano, il 26 di dicembre, terminava con gli ultimi veglioni mascherati, ed era, in genere, quella in cui i teatri proponevano il maggior numero di spettacoli e potevano contare su un gran numero di spettatori. Testi di autori importanti, italiani e francesi, si alternavano in scena a feste in maschera, sfilate di “curiosità”, acrobati, artisti circensi… Le cronache dell’epoca ricordano elefanti tra le colonne del Colombini, come di analoghi teatri piacentini, dislocati spesso in altri luoghi di culto soppressi.
I pregiudizi degli intellettuali
Il conte Giuseppe Nasalli-Rocca fu probabilmente il più importante osservatore degli avvenimenti piacentini dell’800 e l’amore incondizionato che portava alla sua città lo trasformò in uno storico attento e preciso. Mi sono pertanto affidata alle sue parole per verificare quale fosse l’opinione condivisa dagli intellettuali suoi concittadini in merito ai teatri eretti in vari punti della città. Il giudizio non era affatto positivo. Il conte era scandalizzato dal fatto che alcuni fossero stati edificati all’interno di vecchie chiese sconsacrate. Il Colombini, ad esempio, fu definito “non certo tempio dell’arte, ma in certe notti camevalesche lurida sede di baccanali”. Riteneva inoltre che non ci fosse modo peggiore per profanare un luogo sacro che trasformarlo in teatro, sostenendo che “le chiese soppresse riescono assai meno sconsacrate convertite in stalle che non in stanze di animali bipedi”. L’impressione è comunque che ad essere così aspramente colpiti dalle critiche degli intellettuali non fossero i teatri, intesi come entità fisiche, e nemmeno l’attività che in essi veniva svolta, bensì il tipo di pubblico che vi accedeva, spesso poco colto se non apertamente popolare.
Non era raro, ad esempio, che durante gli spettacoli si verificassero aperte contestazioni, incidenti, scontri tali da richiedere l’intervento delle forze dell’ordine. Al Teatro Colombini in una sera di febbraio del 1858, il pubblico non aveva particolarmente gradito la commedia rappresentata e in sala si erano manifestati segnali d’inquietudine accompagnati da fischi, tanto da interrompere la rappresentazione su iniziativa del Commissario di Polizia.
Interessanti le osservazioni fatte in merito agli avvenimenti di quella sera dall’allora Sindaco di Piacenza, il conte Zanardi-Landi, in una relazione inviata al Podestà. Vi si afferma che “molti torti sono della Compagnia Comica, sia per la scelta delle rappresentazioni, sia per non saperle adattare alle circostanze di maggior o minor concorso, come in certi giorni alla qualità del pubblico che si porta a teatro”. La colpa di quanto era accaduto veniva cioè fatta ricadere in gran parte sugli artisti, quasi a scusare il pubblico, il cui comportamento era apparentemente considerato una diretta conseguenza dello scarso livello dello spettacolo proposto. Sicuramente, una posizione su cui riflettere.
I finanziamenti pubblici: difficili oggi come allora
La costruzione del Teatro e l’ingaggio della compagnia richiedevano un considerevole anticipo di capitali, per cui Colombini e Ricordi si rivolsero al Comune di Piacenza per ottenere un sussidio di lire tremila che li aiutasse a ben avviare l’impresa. Il Podestà accolse la loro domanda, ma modificò in parte la proposta: anziché lire tremila, il Comune avrebbe pagato a titolo di sussidio lire mille e avrebbe dato in semplice uso le panche per la platea e tutti gli altri arredi ed oggetti che giacevano inutilizzati presso il Teatro Municipale.
Non erano ancora terminati gli spettacoli del Carnevale, che il Teatro Colombini subì pesanti danni a causa di un grave incendio che bruciò completamente gli arredi e le suppellettili, in gran parte lignee. Ma grazie all’opera dei due falegnami il Teatro fu riaperto al pubblico nel breve spazio di quindici giorni e si iniziò immediatamente un nuovo corso di rappresentazioni.
In quei mesi si esibirono compagnie drammatiche e comiche, si misero in scena opere e balletti, si organizzarono veglioni e vi si tennero spesso spettacoli d’arte varia, con prestigiatori, illusionisti, ginnasti. Poiché durante tutto l’anno il Teatro Municipale rimase chiuso per i lavori di restauro, il Colombini ne fu il sostituto, guadagnando sicuramente nel numero di spettatori.
Gli affari non andavano comunque bene, non tanto per la scarsa affluenza di pubblico, che anzi accorreva numeroso alle rappresentazioni, quanto per le spese che gli impresari erano stati costretti a sostenere. Contravvenendo all’accordo iniziale, che prevedeva l’autonomia economica del Teatro, il Comune sovvenzionò la stagione della Quaresima con un donativo di lire trecento, ma non fu sufficiente.
Il ritorno alla realtà
Ammetto di essermi fatta prendere la mano, ma il fascino di questa piacenza ottocentesca non smette di ammaliarmi. Se andate a curiosare l’avanzamento del cantiere, in vicolo del Consiglio, riportate alla mente – se potete – questa piccola e breve storia. Perché tutto ritorna. Anche un teatro di legno in una vecchia chiesa.
L’anno seguente il Teatro chiuse definitivamente i battenti, ma non prima di aver legato il proprio nome a uno degli episodi più significativi del Risorgimento piacentino, ossia la cacciata degli Austriaci, che avevano rioccupato la città dopo il tentativo di istituirvi un Governo Provvisorio. Come racconta il conte Nasalli Rocca, fu proprio in San Lorenzo che, dopo un concerto della banda del Reggimento Hess, di stanza a Piacenza, furono presi gli ultimi accordi per i previsti avvenimenti, da parte di parecchi piacentini, “a cui forse poteva piacere quella buona musica, ma a cui punto garbavano i suonatori”.
Michela Vignola