cultura
Festival teatrale di Veleia Romana: cosa c’è di nuovo nell’antico?
CARAMELLE AGLI SCONOSCIUTI, rubrica a cura di Michela Vignola – Archiviata l’edizione 2019 della fortunata rassegna teatrale. Prove di bilancio.
Quando è cominciato tutto, prima dell’attuale assetto organizzativo, il pubblico del Festival di Teatro Antico di Veleia Romana era rappresentato da un ristretto manipolo di coraggiosi, che sfidavano quelle sere estive dell’appennino piacentino pre-riscaldamento globale – spesso davvero fredde e umide – e, soprattutto, si misuravano con la messa in scena delle tragedie classiche, in particolare greche, note e meno note, interpretate in modo rigoroso e quasi filologico da attori di fama, specializzati nel genere. Ci conoscevamo tutti, lì nell’area archeologica: eravamo per lo più insegnanti e studenti di liceo o università, oltre a qualche appassionato umanista, a cui si univano fotografi e giornalisti che il giorno dopo avrebbero scritto il pezzo: “Nella splendida cornice del Foro Veleiate, un folto pubblico ha applaudito L’Edipo a Colono, magistralmente interpretato da….” eccetera eccetera.
Poi sono venute le sperimentazioni, per portare un maggior numero di spettatori: personaggi di grido e di moda, che nulla avevano a che vedere con il teatro e ancor meno con la classicità calcavano la scena, non sempre degnamente. Ricordo un Fabio Volo e il suo pesante accento bresciano, una Gaia De Laurentis vestita alla greca dall’eloquio impercettibile… Serate di cui anche nel web si sono perse le tracce – per fortuna, aggiungerei.
Alla fine, si è trovata la quadratura del cerchio: attori tra i più quotati (Michele Placido, Monica Guerritore, Elisabetta Pozzi, Giorgio Albertazzi, Lella Costa, Massimo Populizio, Sergio Rubini, Stefania Sandrelli, Isabella Ferrari, Laura Morante, Pippo Del Bono, Alessandro Haber, Margherita Buy, Stefano Accorsi, Giulio Scarpati, per citarne alcuni), volti noti ed esponenti prestigiosi della cultura italiana (Valerio Massimo Manfredi, Alessandro Bergonzoni, Moni Ovadia, Vittorio Sgarbi, Pier Giorgio Odifreddi, Alessandro Baricco, Gioele Dix, Umberto Galimberti, Alessandro Barbero…), scienziati come Margherita Hack, musicisti del calibro di Nicola Piovani e Uto Ughi e cantanti come Roberto Vecchioni, Vinicio Capossela e Angelo Branduardi.
Questi e altri si sono avvicendati e si avvicendano tra le suggestive rovine dell’insediamento romano. Alcuni sinceramente emozionati per la straordinaria location, altri più freddi, quasi infastiditi dall’eccesso di vicinanza del pubblico, alcuni generosi, alcuni impreparati, che quasi davano l’impressione di leggere a prima vista i testi, alcuni magici nel trasportare il pubblico in un mondo scomparso, da rievocare con pathos e nostalgia.
Il taglio della rassegna è diventato nel tempo sempre meno lirico, e sempre più curvato verso il presente, nel tentativo dichiarato di dimostrare con prove provate l’attualità dei classici (che altrimenti non sarebbero tali!), l’eterno ritorno dei fatti storici, il piacere di assistere a qualcosa di unico e irripetibile come il teatro, a maggior ragione quando il palco è all’aperto e il clima, il vento, le voci degli uccelli e della natura rendono il tutto un unicum non riproducibile. Una volta un gatto nero, uno della colonia felina che vive tra le domus e le colonne ancora erette, ha solcato con lentezza ed eleganza lo spazio del Foro, mentre un violoncello accompagnava una voce recitante: un’epifania che ho ancora impressa nella mente e nel cuore, allegoria del “qui e ora” del teatro, della vita, di tutto. Alessandro Haber ha interrotto la lettura, in un’altra circostanza, per cedere la scena alla voce di una civetta che chiedeva la sua parte di attenzione tra le fronde degli alberi.
Cosa c’è di nuovo nell’antico?
Cosa c’è di nuovo nell’antico, ci chiedevamo all’inizio. Forse quello che un po’ si va perdendo è proprio questa sintonia con il luogo che ospita la rassegna, che nel tempo ha paradossalmente perduto la sua centralità, e di conseguenza la sua magia. Troppe persone. Due maxi schermi a ricordarci che tutto è riproducibile, che puoi vedere anche ciò che realmente non vedi. L’assenza del senso del “rito” che accompagnava alcune serate del passato e, soprattutto, che era la cifra fondamentale del teatro antico. Un teatro che era circolare e democratico, che non aveva i posti migliori riservati ai vip, perché era dedicato al popolo, nato per il popolo, per la sua educazione e il suo svago.
Un pubblico che non scattava foto, che non era attirato dai nomi degli attori in scena – anonimi e coi volti coperti da maschere – ma dalle loro parole e dalle storie che raccontavano, le quali attivavano la catarsi, tragica o comica, che trasportava ogni individuo fuori dalla propria esistenza, per purificarlo dalle scorie del quotidiano e farlo tornare più libero e leggero a lottare ogni giorno per la propria sopravvivenza. Era un momento di riflessione, una scuola di vita e di felicità.
Tornare a fare teatro e non lezioni di attualità
Tutto questo oggi manca. C’è un pubblico che assiste a uno spettacolo come fosse in una multisala, che se ne va quando non è più interessato, senza pensare alla mancanza di rispetto per chi è in scena. Che non lancia neanche un’occhiata all’area archeologica, che non si ammutolisce di fronte alla bellezza del cielo che cambia progressivamente colore nel passare dal giorno alla sera, ma continua a parlare delle solite cose, che non si stacca da sé neanche per un momento per entrare in un modo diverso. Ascolta, sì, magari riflette: ma la magia no, quella è perduta per sempre.
Non ci sono colpe. Il Festival è una cosa bella. E ce ne fossero. Forse però si potrebbe fare un passo indietro. Un coraggioso passo indietro. Alzare l’asticella. Tornare a fare teatro e non spettacolo o lezioni di attualità, perché nei classici c’è già tutto e sta a chi ascolta trovare la chiave. Dioniso approverebbe.
Michela Vignola