cultura
Duecento chilometri e sei treni: il "viaggio della speranza" a casa Guccini
Gli accordi della sua chitarra scandivano, come di routine, i minuti di quella mia sera di un lunedì di febbraio, e facevano germogliare in me il seme della serenità; una domanda cominciò a ronzarmi nella mente; avvertivo il bisogno di conoscere la persona al di là delle sue canzoni, di capire se veramente queste rispecchiassero la sua personalità: come mi sarei sentita se non avessi mai colto l’occasione di incontrarlo?
Internet, informazione veloce, pagine adimensionali raccontavano di un paesino, Pàvana, sull’appennino Tosco-Emiliano (frazione del comune di Sambuca Pistoiese), abitato da non più di duecento anime, che era diventato rifugio di Francesco Guccini, (quasi) 77 anni di uomo, e da 17 mio amico; per chi è cresciuto a pane e Guccini come me – mi piace chiamarci “Gucciniani”- questo viaggio è da farsi almeno una volta nella vita, come una sorta di pellegrinaggio. Con pochi clic ho trovato i treni che mi avrebbero portata nei pressi del paesino, dove non arriva nemmeno un binario, e ho deciso che il venerdì seguente sarei partita: era inutile rimuginarci, sarebbe solo sembrato un viaggio impossibile. Degno di nota è l’entusiasmo del mio compagno di avventura, Marcello, sempre pronto a dare corda alle mie malsane idee notturne, al quale devo veramente tanto.
Venerdì, 10 febbraio, ore 9:30. Stazione di Piacenza
Dall’interno si sentono i treni che arrivano, stridenti, e quel suono subito si associa ad un’idea positiva, ad un’idea di libertà, che rende tutto più contraddittorio ed eccitante. Allo sportello mostriamo l’itinerario: da Piacenza fino a Bologna Centrale, poi da lì a Porretta Terme e di nuovo fino a Ponte della Venturina; con tre treni diversi da prendere, ci troviamo a maneggiare 12 biglietti diversi, quasi ignari che in cinque minuti la nostra avventura sarebbe cominciata.
Venerdì, 10 febbraio, ore 9:52. Stazione di Piacenza
Partenza, che bella parola: deriva dal verbo partire, che per gli antichi latini significava “dividere”, ossia scindere completamente la persona che sei prima di un viaggio dalla persona che sarai tornando; in una parola sola si accettano mille cambiamenti.
Venerdì, 10 febbraio, ore 13;26. Ponte della Venturina
L’aria che si respira è già più pulita, il vento pacato, ma montanaro, sussurra nelle nostre orecchie che nei paesini più piccoli si percepisce più amore per il territorio e per chi lo abita; un’anziana al balcone ci guarda incuriosita, non molti giovani scelgono “Ponte della Venturina” come meta per le vacanze; come fossimo il suo Romeo e lei la nostra Giulietta, le chiediamo dalla strada le indicazioni per Pàvana: rendendo il dialetto in un italiano incerto, dice di proseguire avanti, per circa ancora un paio di chilometri, naturalmente in salita. Sulla strada, nessuno di noi due ha nominato Guccini o una sua canzone, poiché si faceva sempre più grande il rischio di giungere a casa sua, e di non trovarlo; e questo, dopo tre treni ed una scarpinata in salita, fa davvero paura.
Venerdì, 10 febbraio, ore 14;45. Pàvana
Dopo un breve ristoro, finalmente arriviamo: ad accoglierci, solo una piazzola con una chiesa, una pizzeria, un bar, due scuole e tante case in pietra, che rendono l’idea della peculiarità tipica dei paesini di montagna. Al bar ordiniamo due caffè e chiediamo: «Mi scusi, lei sa dove vive Francesco Guccini?»… Non sembrando per niente sorpreso, il proprietario ci dà tutte le indicazioni per arrivare. Felici e con il cuore che palpita, ricominciamo a camminare, fino ad un grande cancello verde, spalancato, come nella descrizione.
Venerdì, 10 febbraio, ore 15;10. Pàvana
Una breve discesa lastricata amplia l’orizzonte ad un cortile di una casa molto umile, e la nostra incertezza viene smentita da internet (l’auctoritas dei giovani); la casa è proprio quella, contornata da qualche siepe e da un albero di cachi. Ad un certo punto, Marcello mi dice che «sicuramente hanno un gusto più buono i cachi di Guccini» e, dietro di noi, un grave «Sì»… Lascio immaginare la pausa di silenzio quando, girati, abbiamo visto il Maestro dietro di noi. Dire che sembra la scena di un film è riduttivo, ma lui sembra abituato alle visite, perciò è il primo a cominciare a parlare. Ci presentiamo, diciamo di dove siamo e, esauriti i soliti convenevoli (“la ascoltiamo sempre”, “leggiamo tutti i suoi libri”), ci scusiamo per il disturbo e lui risponde che sta scrivendo, perciò preferiamo non disturbare il suo momento della giornata, e ci dileguiamo in fretta, dopo gli autografi (firmandosi Franci e dedicandolo a Francy) e l’immancabile foto.
A mente più lucida credo che avrei avuto un milione di cose da dire, ma l’emozione del vedere la musica prendere forma – parla esattamente come canta- mi ha giocato un brutto scherzo. Alto, capelli e barba brizzolati, un vero uomo di montagna malgrado lui a Pàvana non ci sia nemmeno nato. Nella foto si appoggia a me, e questo mi fa sorridere perché nelle sue canzoni io ho sempre trovato un conforto sincero e un appiglio a cui aggrapparmi, e vederlo divertito per quanto fossimo impacciati è stata una grande soddisfazione. Questa esperienza mi ha insegnato quanto sia giusto correre dei rischi per un obiettivo, fare qualche sforzo in più se si ha una grande motivazione a spingerci; la strada del ritorno (vi risparmio i dettagli, siccome siamo tornati a Piacenza alle 21:48) ha scandito e rielaborato una grande emozione, che ora mi sprona quando sono insicura e che mi incoraggia a scoprire cosa possa rendermi orgogliosa di ciò che faccio.
Francesca Gatti