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«Sono a disposizione della provvidenza». Intervista ad Alberto Gromi: scuola, carcere e cinema

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«Non ho mai realizzato i miei progetti, ma sempre quelli di qualcun altro, di chi forse mi conosceva meglio di me e mi ha fatto le proposte giuste, oppure, in parecchi casi, della provvidenza». Alberto Gromi, in fondo, ha fiducia nel destino: «Quando ero un bambino e andavo a trovare mia nonna a Castell’Arquato, passando di fronte alla scuola del paese, ripetevo a mio papà che insegnare sarebbe stato un sogno irrealizzabile. Qualche anno dopo, sono diventato preside del Liceo Gioia». La provvidenza non è riuscita a separarlo dalla scuola nemmeno con la pensione, visto che spesso torna nelle classi per raccontare ai ragazzi ciò che fa nel carcere di Piacenza, come Garante dei diritti dei detenuti, tuttavia ancora per poco: «Non intendo rinnovare l’incarico presso “Le Novate”, che scadrà in primavera. Ho 77 anni, non posso proseguire all’infinito».

Quando rientra nel Liceo di Viale Risorgimento, probabilmente, butta un occhio sull’angolino dove, ogni mattina, attendeva all’ingresso i ritardatari, per ricordare il rispetto. Il ruolo da preside, però, non gli manca. “Se uno va in pensione, non deve essere triste: da domani avrò tutto il tempo per fare quello che non ho fatto prima. Voi non immaginate quanti progetti ho io per la testa”, recitava Gromi in un cortometraggio realizzato nella scuola media di Bobbio. Il cinema, infatti, è una delle sue passioni, che gli ha permesso di segnare recentemente una tappa parecchio importante: un ruolo nel nuovo film di Bellocchio “Fai Bei Sogni”, tratto dall’autobiografia del vice-direttore de La Stampa Gramellini, nelle sale dal 10 novembre. «Parla di un bambino, Massimo, che ad un certo punto si sveglia dal sonno, in mezzo alla confusione: sua madre è morta per un attacco cardiaco – spiega Gromi -. Per una lunga parte della sua vita, vive nella condizione di chi si sente abbandonato. Ma poi, attraverso un vecchio ritaglio di giornale, scopre la verità sulla morte della madre, e ricompone tutta la sua storia, vissuta nella bugia e nella menzogna».

Il critico Federico Gironi ha scritto che il film “fa risuonare tutto il dolore ipotetico di una madre o di un padre che hanno abbandonato per sempre i loro figli: magari non solo con la morte, ma anche con un atteggiamento freddo e autoritario. E in qualche modo, “Fai Bei Sogni” è un film per genitori, più che per figli”. Condivide questa recensione?

«Sì. Ho trascorso due giorni sul set e ritengo che Mastandrea, l’attore che interpreta Gramellini, riesca benissimo a rendere questo senso di mancanza e sofferenza. Il dialogo in cui il mio personaggio propone a Gramellini di rispondere ad una lettera sul tema della genitorialità mi ha commosso. Lo sguardo di Mastandrea era talmente intenso che mi si è spezzata la voce e abbiamo dovuto ripetere la scena».

Come funziona il “dietro le quinte”, soprattutto in una pellicola rilevante come questa?

«Girare delle scene significa avere pazienza. Per esempio, quella in cui un redattore, dopo il grande successo di corrispondenze arrivate a Gramellini, deve portare un cioccolatino sulla sua scrivania, è stata ripetuta almeno venti volte: quando il cioccolatino stava per sciogliersi, io pensavo che finalmente smettessero di girarla – ricorda Gromi, sorridendo -. Invece, un assistente di regia lo sostituiva con uno più fresco. L’attesa, in questo caso, è stata allietata dal grande feeling con Giulio Brogi, con il quale ho chiacchierato a lungo. Qualche volta, ci hanno anche sgridato».

Alberto Gromi in “Fai Bei Sogni”

Quando comincia la sua passione per il cinema?

«Avevo vent’anni e, insieme ad un mio amico, con il quale poi ho fondato il gruppo Attività Teatrali di Gioventù Studentesca, realizzavamo alcuni film amatoriali con una cinepresa, divertendoci parecchio. Sono esperienze passate che si ricordano con nostalgia. Li ho trasferiti su dvd e li conservo».

Il cinema andrebbe inserito nel programma scolastico?

«No, nel momento in cui si propone qualcosa sotto forma di materia scolastica, i ragazzi perdono l’interesse, poiché viene imposta. Credo che, come diceva Cattivelli, si debbano guadare tantissimi film, belli o brutti, per farsi l’occhio e capire realmente ciò che si ha di fronte. In due ore di lezione settimanali, non si riuscirebbe a far nulla. Da giovane, frequentando il cineforum, assistevo a  discussioni animatissime dopo le proiezioni. È proprio questo il bello: riflettere, vedere e rivedere, continuare a scoprire qualcosa di nuovo».

In “Fai Bei Sogni” ricopre il ruolo del direttore di giornale. Quanto è simile a quello del dirigente scolastico?

«La legge diceva che «un preside promuove e coordina le attività scolastiche». Penso che si possa dire anche di un direttore di giornale, in quanto deve pubblicare quotidianamente un prodotto e, come succede nel film, credere nelle persone. Se si è attenti e innovativi, con un collegio docenti che segue il progetto, le cose migliorano davvero. Il Liceo Gioia, dal punto di vista tecnologico, n’è l’esempio».

Come prese il via il percorso di scuola digitale?

«Nel 1983, tra i primi in Italia, adottammo il Piano Nazionale di Informatica, avviando dei corsi di computer con il professor Degli Antoni. Nell’attuale aula docenti, installammo un grosso elaboratore scartato da un’impresa di abbigliamento, che in realtà non usammo mai. I docenti temevano di non essere all’altezza, ma li rassicurai: “Se c’è da smanettare, i ragazzi sono bravissimi. Voi siete la testa, loro sono le mani”. Mi hanno creduto e sono orgoglioso dei risultati di oggi».

Cosa ne pensa delle polemiche sui compiti a casa? C’è chi sostiene che siano da abolire. 

«Ho un archivio consistente dell’indagine che facemmo al Liceo Gioia, quando ero preside: nessuno studente rispose di eliminarli, ritenendo che dovessero essere mirati, perciò non “esercizi a caso”. Io mi adeguo all’opinione degli studenti».

L’anno scorso è tornato al Liceo Gioia, in occasione della Notte dei Classici. Perché occorre tenere in vita il greco e il latino?

«Perché, oltre a dare un’abilità di ragionamento, sono il simbolo della nostra storia, un patrimonio che non va assolutamente perso. Rappresentano la nostra anima. Anche fra i giovani, occorrono persone in grado di leggerli nella versione originale. Io lo faccio con Orazio, è un suono incantevole, da gustare in latino».

C’è un problema nell’insegnamento di queste materie?

«Sì, è troppo tecnico. Non bisogna analizzare solo la sintassi e la sovrastruttura, ma soprattutto quello che vi sta dentro. Ad un insegnate dicevo che, quando legge Antigone, non si deve preoccupare della grammatica, bensì della riflessione che mette in gioco: s’oppone, infatti, alle leggi degli uomini, per affermare quelle degli dei. Antigone è una ragazza di 16 anni, coetanea degli allievi che la studiano, i quali a loro volta hanno la stessa ansia di capire il rapporto fra legge umana e divina».

Papa Francesco ha rivolto un appello in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri, “affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti”. Come percepisce, dalla prospettiva di Garante dei diritti dei carcerati alle Novate, il concetto di dignità nella realtà penitenziaria?

«Ci sono due grandi pilastri su quali si basa: l’essere umano e la Costituzione. Quest’ultima, nell’articolo 27, afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità. L’essere umano non cessa di esserlo neanche se entra in carcere, pur avendo commesso fatti terribili».

In che modo si mette in pratica?

«Non ignorando le richieste dei detenuti. In questi giorni, ho scritto al consolato della Bosnia ed Erzegovina, in merito ad un carcerato di tale nazionalità, ed ho ricevuto una risposta in tempi brevi, contrariamente a quanto avviene quando mi rivolgo al Dipartimento italiano dell’amministrazione penitenziaria. Moltissimi detenuti vorrebbero scontare la pena nei propri paesi d’origine, ma dal magistrato ricevono solo una negazione, senza alcun motivo. Non si sentono ascoltati».

Gli stranieri nelle carceri italiane sono circa il 35%. Rispetto al dato complessivo europeo, è un numero alto. Rappresenta l’effetto di un’integrazione mal funzionante? 

«A Piacenza, sono addirittura il 60%. Se quelli che hanno diritto ad essere espulsi venissero rimpatriati, il sovraffollamento non sarebbe un problema e noi ci guadagneremmo economicamente. Se una settantina di richiedenti asilo non ha nemmeno il sapone per lavarsi, le scarpe da mettersi, passando tutto il giorno nella noia, ad un certo punto qualcuno scappa e delinque. Si trova evidentemente in condizioni che lo portano a compiere un’azione sbagliata».

Cosa non funziona nelle pene?

«Il problema è che il codice penale stabilisce la pena in funzione della  retribuzione e non della rieducazione, è quantitativa e non qualitativa. La pena dovrebbe essere a tempo indeterminato, fino al momento in cui si attesta che l’individuo è in grado di tornare nel contesto sociale e riprendere la propria vita. Ciò non viene messo in atto, n’è prova il carcere di Piacenza, nel quale vi sono tre educatori su quattrocento detenuti. È ora di creare delle strutture intermedie tra carcere e società, dove si possa stare per un periodo limitato, cercando nel frattempo un lavoro ed una sistemazione».

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Alberto Gromi in una scherzosa foto del 1990

Su Facebook, spesso, pubblica le fotografie che scatta dalla finestra di casa sua, in Piazza Duomo. Dall’alto, sopra il cuore di Piacenza, che città vede?

«Ho sempre desiderato abitare in Piazza Duomo, perché vi ho trascorso i primi ventiquattr’anni della mia vita: prima da bambino, con la nonna che mi portava a giocare alle biglie sui sassolini e a sbucciarmi le ginocchia; poi, da più grande, sulla panchina con la mia compagnia. E oggi, grazie al cielo, non è cambiato nulla. I bambini giocano ancora, in estate le famiglie, per lo più straniere, rimangono fino alle undici di sera. Piazza Duomo, differentemente da altri parti del centro storico, è abitata in ogni momento, anche di notte».

I piacentini si lamentano, descrivendola come una “città morta”. Non è vero?

«Non si vede quello che di buono c’è. Ultimamente, vengono organizzati una miriade di eventi, si ha quasi paura di non riuscire a seguirli tutti. L’ex direttore di Libertà Luigi Bacialli diceva: “Un piacentino è quello che, chiedendogli cosa vuole e ricordandogli che il vicino ne avrà il doppio, risponde di cavargli un occhio”. È un po’ esagerato, ma effettivamente nei piacentini c’è questo continuo senso di insoddisfazione».

Thomas Trenchi

Classe 1998, giornalista professionista dell'emittente televisiva Telelibertà e del sito web Liberta.it. Collaboratore del quotidiano Libertà. Podcaster per Liberta.it con la rubrica di viaggi “Un passo nel mondo” e quella d’attualità “Giù la mascherina” insieme al collega Marcello Pollastri, fruibili anche sulle piattaforme Spreaker e Spotify; altri podcast: “Pandemia - Due anni di Covid” e un focus sull’omicidio di via Degani nella rubrica “Ombre”. In passato, ideatore di Sportello Quotidiano, blog d'approfondimento sull’attualità piacentina. Ha realizzato anche alcuni servizi per il settimanale d'informazione Corriere Padano. Co-fondatore di Gioia Web Radio, la prima emittente liceale a Piacenza. Creatore del documentario amatoriale "Avevamo Paura - Memorie di guerra di Bruna Bongiorni” e co-creatore di "Eravamo come morti - Testimonianza di Enrico Malacalza, internato nel lager di Stutthof". Co-autore di “#Torre Sindaco - Storia dell’uomo che promise un vulcano a Piacenza” (Papero Editore, 2017) e autore di "La Pellegrina - Storie dalla casa accoglienza Don Venturini" (Papero Editore, 2018). Nel maggio del 2022, insieme ai colleghi Marcello Pollastri e Andrea Pasquali, ha curato il libro-reportage "Ucraina, la catena che ci unisce", dopo alcuni giorni trascorsi nelle zone di guerra ed emergenza umanitaria. Il volume è stato pubblicato da Editoriale Libertà con il quotidiano in edicola. Ecco alcuni speciali tv curati per Telelibertà: "I piacentini di Londra" per raccontare il fenomeno dell'emigrazione dei piacentini in Inghilterra nel secondo dopoguerra, con immagini, testi e interviste in occasione della festa della comunità piacentina nella capitale britannica dal 17 al 19 maggio 2019; “I presepi piacentini nel Natale del Covid”; “La vita oltre il Covid” con interviste a due piacentini guariti dall’infezione da Coronavirus dopo dure ed estenuanti settimane di ricovero in ospedale; il reportage “La scuola finlandese” negli istituti di Kauttua ed Eura in Finlandia.